Domande intervista a Raffaella Formenti
Come e
perché hai deciso di passare dalla pittura, tua iniziale
espressione artistica, all’utilizzo della pubblicità come mezzo
espressivo? Nella tua pratica creativa che ruolo ha quest’elemento
appartenente alla quotidianità?
Quando utilizzavo i materiali consueti per pittori avvertivo uno
scollamento dalla quotidianità delle altre persone, come se la tela,
il foglio, fossero un campo giochi a parte, non appartenente allo
spazio espressivo condiviso, come fosse un luogo di privilegio dentro
il quale gli altri non erano ammessi se non come occasionali
spettatori a cose fatte. Nelle prime mostre dopo l'Accademia esposi
pastelli ad olio utilizzati su fogli di formato scolastico,
indagando sulla dimensione consentita all'espressività, di chi viene
scolarizzato, a stare nei margini e nello spazio di un banco. Mi rifacevo simbolicamente all'apprendimento a stare in mezzo agli altri limitando il proprio
istinto a spaziare.
Elaboravo questi pastelli utilizzando le
lamette da rasoio, strumento che ridefinisce la forma dei volti e
ridefinisce l'esistenza o meno di chi non vuole dare forma alla
propria stessa vita, ricorrendo all'autolesionismo suicida. Io
sublimavo combattendo nello spazio di un foglio, cercando di
trasformare quella dimensione dozzinale in un unicum nato dalle
emozioni del momento. Per esempio, quando preparai il centinaio di
pastelli richiestomi per un albergo, per riuscire a portare a termine
la commessa con la giusta tensione espressiva, ricorsi ad un
progetto concettuale che ridefiniva l'iter con un preciso
significato, legato a ciò che di uguale e diverso avviene nelle
trentanove stanze di un hotel, Momenti simili ma mai uguali, grazie
al differenziarsi di ognuno nel compiere gli stessi rituali.
Il mio approccio al foglio divenne il percorrerlo con uguale incipit,
su cui veniva ad incidere naturalmente il diverso momento emozionale
dato dal fatto che il colore stesso richiede dialogo mai
sovrapponibile, se non utilizzato in modo preordinato o meccanico.
Quando iniziai a utilizzare le scatole era per impotenza allo stare a
parete in un riquadro artificiale. Compressi i pastelli esponendoli
in scatole da imballaggio per lenzuola, trovate fuori da un negozio
di biancheria, in seguito nascosi i pastelli dietro muraglie di
scatole per il trasporto della frutta, lasciando che si
intravedessero solo spiando attraverso di esse. Da lì passai a porre
l'accento direttamente sulle scatole, modificandone l'aspetto
attraverso il decorticare la pubblicità di riconoscimento che le
rivestiva. Lo strappo di modifica sul linguaggio, Rotella docet,
diviene anch'esso appropriazione e pittura.
A differenza del quadro, l'uso delle scatole mi permette di far parte
dell'agire della comunità cittadina in cui vivo. Posso avere
involucri perché altri attorno a me li svuotano dei loro contenuti,
che io ripristino mutandoli in altro. Non contengono più vitamine
eduli ma pensieri, resi tangibili attraverso ingombri installativi.
Oltre agli imballaggi, cominciai ad impossessarmi dei volantini
sparsi sulle auto di mezza Milano, dove vivevo da qualche tempo. E
con essi iniziai il mio mosaico infinito, che di volta in volta
prendeva forma nelle gallerie in forme diverse, che chiamai
Concrezioni. Potevano essere piccoli assemblaggi da parete o intere
pareti, dove gli elementi della comunicazione cartacea che
raccoglievo per strada durante i miei vagabondaggi cittadini, da
privilegiata flaneuse, divenivano tasselli di un'incrostazione di
superficie, ricca di confusione riorganizzata in armonia cromatica,
che purtroppo non mi ha mai abbandonato, venendo dalla pittura ad
olio, meditativa, particolareggiata. Dura cancellare le cattive
abitudini...
Nelle tue
opere il messaggio pubblicitario più che essere annullato si
trasforma. A livello concreto vengono eliminate delle lettere o
delle parole e grazie a questo intervento il significato che assume
è totalmente diverso da quello originale, Da cosa nasce questa
trasformazione e come funziona questo processo nella realizzazione
dell’opera?
Ho sempre amato leggere, scrivere e giocare con le parole. Alcune le
scarto, altre le conservo e impongo loro uno scarto di senso,
svincolandole dal rigo assegnato e dirottando a dire altro, o
quantomeno accennare ad altro, o costringo l'occhio ad inciampare in
modo diverso sulle parole, più consapevole di stare decodificando un
senso, anziché assorbirlo per “osmosi passiva”. Mi piace
scardinare in altro, dare giusto degli input fuori luogo, manipolando
screenshot presi dallo stesso luogo in cui ci si scambia
comunicazioni.
Lo strappo e la piega ricollocano senso e attenzione. Maybe.
Osservando
le tue opere si nota una ricerca estetica tesa all’equilibrio e
all’armonia.
Questa caratteristica è presente da sempre? In che
modo si è trasformata nel tempo la tua produzione artistica? Quanto
le forme che utilizzi nelle installazioni rappresentano il messaggio
che vuoi veicolare?
Credo che ci siano sufficientemente cose sgradevoli nella
quotidianità di tutti, e che non abbia senso aggiungerne altre. Non
è da me ricorrere a pugni nello stomaco per attirare l'attenzione,
preferisco l'arma della semplicità di mezzi, dell'ironia,
dell'armonia. Nessuna esibizione tecnica sofisticata che crei stupore
e distanza, solo gesti, semplici come il respiro, che chiunque
potrebbe fare.
Questa caratteristica toglie il mio fare da qualsiasi
piedistallo, ponendomi in dialogo alla pari, con materiali conosciuti
e frequentati da tutti nella quotidianità, pur se predisposti a
farsi usare diversamente: come il trasformare le gomme da cancellare
in strumenti per scrivere, come lo scrivere di filosofia su nastri da
registratore di cassa, come il rendere inservibili i contenitori
squarciandoli e rendendoli fragili strutture che “accennano” a
paesaggi di riflessione.
Spostare l'uso e il sentire, giusto di un passo, quel tanto che dia
un cambio di prospettiva, un inciampo visivo. Lo scarto che propone
uno scarto di pensiero.
La scelta
dell’uso del punteruolo come strumento di lavoro in alcune tue
opere sembra derivare quasi da una volontà di rendere fragile una
superficie fino alla sua rottura. Tuttavia il tuo intervento non è
violento, anzi, l’oggetto diventa un luogo di assoluta
riflessione. Che rapporto c’è tra il pensiero e le tue opere?
Cosa ti ha portato a voler andare oltre il confine che la superficie
impone?
Stavo riflettendo sul punto. Immaginavo che guardandolo ingigantito
ci avrei trovato in nuce tutte le direzioni possibili per proseguire
da esso a tracciare il segno. Mancava solo la profondità, il passare
oltre. L'idea di tratteggio ad indicare un'ipotesi di apertura è da
sempre in un angolo del mio cervello. Tratteggiavo pareti con
immagini strappate su di una pellicola trasparente adesiva,
suggerendo come la Rete, entrando nelle nostre case, strappasse le
pareti come fossero un coupon da compilare e inviare altrove. Con
internet i nostri dati ci archiviano in questo altrove che ci sfugge.
Un tempo sulle riviste c'erano i coupon da compilare e spedire, per
avere qualche omaggio, e anche allora il prezzo era la cessione de i
nostri dati da aspiranti consumatori , raccolti e analizzati a
campionatura. In cambio di un piccolo omaggio si diventava
inconsapevoli cavie per statistiche.
Il tratteggio si ottiene anche forando, sfinendo una fibra dietro
l'altra, fino al cedimento della superficie. Anche le lastre di marmo
vengono estratte dalla montagna un foro dopo l'altro, fino a
sfiancare la vena e poterne estrarre il blocco, pronto per una
scultura o per farne lastre e gradini.
Un sentiero si percorre un
passo appresso l'altro, una linea si traccia un punto appresso
l'altro, anche se ognuno di essi resta invisibile a causa della
regolarità del movimento. Se si tracciasse la linea visibilmente un
punto dopo l'altro, magari forando la superficie, la sua vera
natura di confine ne sarebbe evidenziata attraverso un “crollo
strutturale” che isola lo spazio circoscritto dal contesto.
Con il punteruolo inseguo la forma tra le parole e le figure offerte
dal supporto scelto, per lasciare o togliere, attraverso il mio
tracciato, gli elementi preesistenti. Ogni punto chiama l'altro,
determinando la rotta del segno finale.
Anche quando dipingevo andavo
per accumuli di piccoli gesti successivi, fino a sfondare la
superficie con la trasparenza del colore assorbito attraverso i vari
passaggi che eseguivo, mettendo e togliendo la materia. Il foglio non
acquisiva lo spessore del colore aggiunto, ma la profondità del
colore elaborato su di esso.
Ora squarcio direttamente, ma è il pensiero che tiene il controllo,
non più l'emozione, anche se alla fine resta un occhio di attenzione
anche di tipo pittorico, è più forte di me. In questo riconosco che
non potrò mai essere una concettuale pura. A volte più minimal,
altre più pittoricamente esuberante, ma alla base c'è un progetto
pensato, non tanto nella forma finale, che mi piace scoprire passo
passo, ma nel senso che attribuisco ai diversi elementi che restano presenti nell'opera terminata. Anche se la parola
“terminata” non è la più corretta nel mio caso. A volte mi
capita che appoggiando distrattamente una scheggia del mio fare,
questa scheggia impazzisca di nuovi contenuti entrando in dialogo con
la materia su cui si è “confusa” a mia insaputa progettuale. Qui
scatta il cogliere, l'accogliere, o il defraudare di questo bivio
proposto dal caso. A volte accetto il dirottamento, o mi prendo il
tempo, lasciando sedimentare la contaminazione, altre resto sui passi
da me predisposti.
E' tutto uno stare in ascolto. Di sé e del
caso, in complicità fluida.
Spesso,
come forma espressiva, utilizzi anche il video. Quale riflessione
vorresti suscitare in chi guarda? Anche i video che pubblichi sui
social li ritieni parte della tua produzione artistica?
Utilizzo i video come sassolini nella
scarpa, anche nel caso degli interventi sui social, senza soluzione
di continuità. Resto in dialogo con qualsiasi mezzo mi si trovi a
tiro. Non ho mai fatto del video la mia ricerca artistica
prioritaria perché richiederebbe uno studio a sé di un linguaggio
specifico che ha una sua storia e una sua evoluzione. Sarei una
neofita, come se iniziassi a fare ricerca nell'uso dell'Intelligenza
Artificiale, di cui resto curiosa e informata, accettando però il
mio limite temporale e lasciando il campo di ricerca alle nuove
generazioni.
Per incidere in un linguaggio bisogna prima conoscerlo
a fondo e solo in un secondo tempo lo si può scardinare e asservire
al proprio scopo linguistico. Potrei avvalermi dell'intermediazione
di esperti, sia nelle tecnologie che nei materiali che non conosco,
ma qui interviene il mio limite caratteriale. Preferisco arrivare
fin dove posso gestire con i mezzi più semplici e ordinari. Uso
quindi la fotografia e i video senza velleità di fotografa o di
filmaker originale, ma semplicemente mi esprimo con essi con la
stessa allure che applico ad altri materiali, inseguendo il mio
filone di interesse. Per esempio non essendo esperta di musica e
sapendo quanto questa incida nella lettura di un'immagine,
preferisco non avvalermi di colonna sonora o di chi me ne saprebbe
proporre una, muovendomi piuttosto su casualità di rumori o
sovrapposizioni temporali sempre date dal caso. L'idea di strappo da
ciò che già esiste mi piace applicarla in diversi ambiti, ma
sempre modulata sulle mie forze.
Strappare, spostare e destrutturare
senza necessariamente un fine costruttivo che proponga
un'alternativa ritenibile più vera, piuttosto creare un inciampo di
riflessione.
Nella
società contemporanea siamo continuamente esposti a delle immagini
e ciò ci porta a non fare più attenzione a ciò che ci circonda.
Pensi ci sia una relazione tra questo e il messaggio che vorresti
trasmettere nelle tue opere?
A questo proposito mi viene in mente un intervento che feci su dei
cartelloni pubblicitari tanti anni fa. Credo fosse il 1998. Ero in
Austria, Cartellonistica a gogò, Io avevo iniziato a costruire le
mie biblioteche verticali, fatte con le cassette della frutta mignon,
non quelle delle arance, una taglia più smart. Giravo in bici nei
pressi del luogo che ci ospitava e iniziai a raccogliere un filo di
colore dalla pubblicità. Di sicuro quei cartelli segnati con una
ondeggiante riga bianca avevano una rinnovata attenzione dei
passanti, a causa del mio intervento. In effetti è un tempo in cui
si sente più il bisogno di togliere immagini, più che aggiungerne
altre.
Per anni giravo con la mia Nikon sempre pronta a cogliere
particolari. Da quando tutti fotografano vado in giro disarmata. A
volte estraggo il cellulare, ma è più per prendere appunti per i
miei pensieri che per condividere la foto. Anche sui social
preferisco più andare di screenshot, tutto viene e torna al mezzo
stesso, che risputa e inghiotte e risputa. E poi svanisce tra i
miliardi di dati.
Usare materiali fragili e provvisori, costruire
installazioni mai ripetibili e definitive, qualcosa che vivi solo se
sei presente, qualcosa di non adatto al discorso riportato, alla sola narrazione
fotografica, priva dell'esperienza tridimensionale dei corpi a
confronto in uno spazio condiviso. Nemmeno con la foto di un viaggio
riesci veramente a condividere l'esperienza con chi non c'era. Resta
solo il contorno, la struttura progettuale e concettuale da esperire
con la mente e l'immaginazione. Diversa per ognuno, legata
all'elasticità soggettiva del percepire in astratto.
La tua
attenzione verso la contemporaneità è percepibile attraverso molte
opere.
Il tuo obiettivo è esortare chi guarda ad aprire gli occhi
verso ciò che sta accadendo nel mondo? È un modo per smascherare
l'ipocrisia umana?
Credo di essere io la prima ipocrita, non in grado di affrontare le
realtà più complesse in prima persona, compreso il tirarmi su le
maniche e darmi da fare attivamente per giuste cause del disagio
altrui. Accetto i limiti della mia ipersensibilità che tende ad
assorbire talmente il disagio altrui da rendermi impotente
nell'approntare soluzioni attive. Per cui limito i danni osservando
e spostando tasselli come lampadine che si avvitano e svitano a
seconda di dove sento che sia necessaria più o meno luce. Per
esempio detesto l'eccessivo accento a tutta la negatività umana su
cui gioca l'informazione, o anche il singolo pettegolezzo. Porre
sempre l'accento sulle catastrofi ci appiattisce, spalmati sul
pavimento, o meglio sul divano. Le disgrazie altrui ci fanno sentire
meno le nostre. Ma ci tengono anche con gli entusiasmi al minimo, con
le potenzialità intellettive sedate. Tengo l'occhio su ciò che
accade intorno a me, ma ho fragili strumenti di intervento nelle mie
mani, non essendo adatta a spostare i monti con azioni collettive. Ho provato più
volte, ma mi sono sempre fatta assai male, perdendomi mentre
accompagnavo altri alla loro destinazione. L'essere uscita dal
quadro è stata l'unica arma che sapevo usare per dire qualcosa su
ciò e come viviamo, pur senza possedere verità o soluzioni. Resto
poco più che un ingombrante menestrello, ingombrante per me stessa,
soprattutto. La prossima vita mi limito a scrivere. Basta un computer, o anche solo un foglio e una matita.
Al giorno
d’oggi quanto è difficile per un’artista bilanciare la parte
puramente creativa con le esigenze del mercato o con la promozione
di se stessi? L’uso dei social media facilita la percezione del
lavoro da parte del pubblico e la semplicità con cui esso assimila
il messaggio?
Tutto resta proporzionato a ciò a cui si da importanza. Le regole direbbero che un artista dovrebbe ormai tener conto di giocarsi un
70% in comunicazione e un 30% in lavoro di studio, o anche meno, se
fai realizzare le tue idee da altri, visto che non è più una
questione di misurarsi nell'abilità tecnica personale. Dipende se si
vuole essere famosi per bisogno di palco e di pubblico o se si segue
un'ossessione, un'urgenza, al di là di avere o meno l'attenzione e
il coinvolgimento del Mercato.
Io non ho mai saputo promuovermi,
anche perché avendo iniziato a fare seriamente relativamente tardi,
non avevo la spregiudicatezza da ventenne all'assalto del mondo,
avevo solo la mia ossessione in testa di trovare il linguaggio che si
confacesse al mio silenzio, lavorando più sulle pecche caratteriali
e sulle mancanze e i dubbi, che sulle convinzioni. Sono sempre stata
una solitaria a cui piace snasare come gli altri riescano a stare in
equilibrio tra il silenzio e il dire. Ho sempre pensato che l'uso
della parola non fosse... equamente distribuito! C'è chi sa vendere
anche il proprio fumo e chi non riesce a piazzare il proprio
diamante, ritenendolo un vetrino colorato o poco più.
I social
sicuramente agevolano anche chi non ha un carattere aperto e
spavaldo, ma divengono anche una trappola rubatempo a vuoto. Io li
adoro perché attraverso di loro ho potuto sbirciare in realtà che
nemmeno immaginavo esistessero, tipo la testa dei tifosi sfegatati o
dei leghisti... per cui ho poi capito di più come sia facile la
manipolazione e gli esiti elettorali... il razzismo e i delitti...
che prima con le mie lenti piccolo borghesi tutte rosa non potevo
nemmeno avvicinare! Resto comunque consapevole di non saperli utilizzare al meglio
come strumento di propaganda del mio lavoro.
Per esempio quando sono
entrata in Instagram ho pensato ad un progetto specifico, i racconti
da tastiera. Solo poi ho capito che chiunque incontrassi andava poi a
conoscere il mio lavoro artistico in Instagram e ovviamente non
capiva, o immaginava che quelle tastiere che postavo fosse la mia
ricerca visiva. Difficile dirottare il senso di un mezzo se non ne
conosci le regole, come dicevo. Infatti ora ho abbandonato il
progetto delle tastiere quotidiane, posto a sentimento e mi pascio
delle mie trentanove visualizzazioni e qualche cuore, beandomi
soprattutto di essere seguita e quotata da un'artista che stimo e che
non ho mai conosciuto di persona, anche se siamo nello stesso
documentario, Clandestine. Ogni tanto la ringrazio di tenermi d'occhio. Se
qualcuno guardasse il numero dei miei followers e mi valutasse per
questo sarei spacciata a prescindere, da sprovveduta digitale, da
boomer doc!
Gran parte
della nostra comunicazione quotidiana avviene attraverso l'uso dei
vari strumenti offerti dal web, tra cui i social media. In questa
era digitale cosa resta da comunicare all’arte e quale ruolo può
svolgere l'artista?
L'artista non è un profeta e non ha un unico ruolo prestabilito.
Come tutti gli umani deve convivere con se stesso e sopravvivere agli
straventi del cattivo tempo e coccolarsi gli affetti. L'artista può
anche scegliere di tacere e sparire, se ha la forza di viversi la sua
ossessione in solitudine, magari idilliacamente sostenuto da qualche
mecenate amico, da un fratello Theo, alla Van Gogh.
Non c'è
risposta né formula né ruolo. C'è da lanciare il proprio primo sasso, che
permetta di attraversare il guado verso la sponda che si vorrebbe
raggiungere e sperare, lanciando il secondo e il terzo, che siano
abbastanza solidi da tenerci con i piedi asciutti, o alla peggio che
il guado non sia così impervio e profondo da ritrovarsi comunque
prima o poi all'asciutto, o trovare un ponte, un altro sasso e non un
gorgo che ci inghiotta.
Si prova ad inseguire la propria meta e se, così facendo, ha qualcosa di valido e interessante anche per altri, i
suoi passi si faranno più sicuri e collaudati e porteranno in un
luogo piacevole e asciutto anche altre persone. Anche in mezzo al
frastuono di tutti che inseguono mille tracce di vita differenti, o
calpestati dalla massa che scende la corrente perché non ha appigli
per farsi forza nel cambiare rotta e darsi un suo progetto personale
Essendo
un’artista donna e avendo iniziato la tua attività da alcuni
decenni, come hai vissuto il confronto e il rapporto con i colleghi
uomini? Trovi che ci sia stata un'evoluzione o credi che una donna
subisca ancora oggi delle discriminazioni nel mondo artistico?
La
prima e più profonda discriminazione purtroppo la subiamo da noi
stesse, se nessuno si è mai aspettato nulla da noi, e ci ha
plasmato secondo esempi di sottomissione ad altri, nel dare priorità
e importanza ad altri e non a se stesse, al proprio sogno, al
proprio istinto e talento.
Dobbiamo aver coscienza di potere essere
noi stesse il nostro peggiore nemico. Io infatti sono un campione
nella sindrome dell'impostore, quella sindrome per cui hai la
certezza dentro di te di non essere mai all'altezza, di non meritare
ciò che ti accade di positivo e che sia solo tua la colpa di
ciò che non va nel verso giusto.
Ci sono sicuramente più donne
ora anche nel campo artistico, ma solo perché c'è stato, grazie al
maggiore benessere più diffuso, un aumento esponenziale di chi può
permettersi di alzare la testa dai lavori di pura sopravvivenza e
provare ad ascoltare e seguire i propri sogni, anche se
inconsistenti. E nella quantità, non necessariamente tutta di
qualità, ci sono anche più donne.
Se andiamo però a leggere i
nomi dell'Olimpo ufficiale, o delle valutazioni di mercanteggio, ci
si accorge che a dare le carte vincenti è ancora soprattutto il
regno dell'uomo e del gay, grande amico ma grande antagonista della
donna, essendo dotato di caratteristiche che giocano doppiamente a
suo favore nell'ambiente dell'arte.
Di sicuro come donna ci vuole il doppio
di tutto, di carattere, di bravura, di originalità, di socialità,
di culo (altrimenti detto fortuna), di stronzaggine, di
autocentrazione e narcisismo...
Poi, se arrivi con convinzione e tigna
ai novanta anni, ti scorrazzano in carrozzella procurandoti mostre che
implementino le tue quotazioni, perché altri vi possano lucrare dopo la tua morte.
Ma
non è detto che si ricordino di mettere il tuo nome nei libri della
Storia dell'Arte, che comunque resta una narrazione revisionabile e
soggettiva, fin dai tempi del Vasari.