venerdì 16 maggio 2025

2025 PUNTO in LINEA

 La cosa che fa sempre strano è che lo scrivere a monitor sembra di colpo richiedere una versione più pomposa ed ufficiale dei miei pensieri, che, in realtà, nemmeno esistono.

Le parole si chiamano a vicenda, senza che ci sia un ordine di uscita fissato in precedenza. Non potrei mai dettare a qualcuno che attenda la spremuta delle mie meningi, con le dita leggermente sollevate sulla tastiera, come atleti al via. Tutto è spento nei miei uffici interni. Nulla da dichiarare, che io sappia. Solo una necessità di impossibile riordino e un desiderio di iniziare da qualche parte. Prima o poi è da fare.

Inizio oggi, dopo gli ultimi disegni tracciati sui fogli gialli dell'offerta da supermercato, perché ciò che ne esce mi rimanda ad un'immagine che ricorreva nel mio fare già negli anni '80, e non saprò mai se riemerge perché di recente ho rivisto il quadro iconico di quel periodo, o semplicemente perché quello sbreccio è ciò intorno a cui stavo già ronzando, dopo aver continuato a tracciare la mia linea a matita che non sa procedere spedita a causa dell'assenza di comandi sulla direzione da intraprendere. Una linea che procede a tentoni, inciampando, rigirando su se stessa, cercando un senso al suo farsi, un'immagine mentale da inseguire, un motivo della sua collocazione spaziale ed esistenza nel qui ed ora. Nulla si accende, e quindi lei si affida alla casualità nervosa del gesto trattenuto, che registra lievi sbandi e digressioni, affastellamenti, scarti improvvisi, leggere flessioni dal rettilineo immaginato. La linea non è più una decisa scissione dello spazio in due, un confine netto tra due zone senza una precisa motivazione ed identità. La linea non divide in due il foglio, dando una connotazione ai due spazi che si vengono a creare. La linea si fa unica protagonista, casualmente poggiando nel suo incedere su uno o l'altro supporto scelto. Ѐ lei la narrazione stessa. Il dire coincide con il fare. Un punto che scorre e descrive il suo percorso, non per delineare una forma, ma per farsi forma grazie al suo stesso viaggio senza scopo e senza direzione. La trova nel farsi, nell'agirsi in linea, se dopo se, sé dopo sé. Io punto + Io punto+ Io punto all'infinito, o quasi: fino al precipizio del bordo. E su di esso si attarda, accumulandosi su se stesso, per non porre fine al suo spostarsi senza procedere. Potrebbe tornare sui suoi passi, ma verrebbe a scriversi una forma, essendo impossibile ripercorrere esattamente gli stessi spostamenti. Quindi, a punto arreso, sul foglio appare una linea corposa, impossibile da estendere nella sua essenza di linea. Una linea ingrassata dai dubbi di un punto instabile della sua essenza. Accumuli adiposi di grafite si addensano e si assottigliano senza mai cessare di procedere in una media d'intenti sul percorso vettoriale da intraprendere. Il punto strattonato procede per accelerati scarti di direzione, quasi per successive esclusioni del dove non dirigersi. Si muove per prossimità, come ogni parola scelta da AI per dipanarsi in discorso. Lo spostamento del punto procede scegliendo lo spazio più prossemico a se stesso dopo aver scartato tutto ciò che ne diluirebbe troppo l'accezione e la natura di PUNTO INSTABILE. Non è una virgola, non è un punto fermo. Ѐ la capocchia penetrante di una freccia vettoriale vista dall'alto, senza la visibilità della sua direzione, in balia dell'attrito tra superficie e stimolo nervoso al procedere.                                                         srotolando grafite.    raffo - 2025

mercoledì 14 maggio 2025

2024 - Intervista

 

Domande intervista a Raffaella Formenti

  1. Come e perché hai deciso di passare dalla pittura, tua iniziale espressione artistica, all’utilizzo della pubblicità come mezzo espressivo? Nella tua pratica creativa che ruolo ha quest’elemento appartenente alla quotidianità?

Quando utilizzavo i materiali consueti per pittori avvertivo uno scollamento dalla quotidianità delle altre persone, come se la tela, il foglio, fossero un campo giochi a parte, non appartenente allo spazio espressivo condiviso, come fosse un luogo di privilegio dentro il quale gli altri non erano ammessi se non come occasionali spettatori a cose fatte. Nelle prime mostre dopo l'Accademia esposi pastelli ad olio utilizzati su fogli di formato scolastico, indagando sulla dimensione consentita all'espressività, di chi viene scolarizzato, a stare nei margini e nello spazio di un banco. Mi rifacevo simbolicamente all'apprendimento a stare in mezzo agli altri limitando il proprio istinto a spaziare.

Elaboravo questi pastelli utilizzando le lamette da rasoio, strumento che ridefinisce la forma dei volti e ridefinisce l'esistenza o meno di chi non vuole dare forma alla propria stessa vita, ricorrendo all'autolesionismo suicida. Io sublimavo combattendo nello spazio di un foglio, cercando di trasformare quella dimensione dozzinale in un unicum nato dalle emozioni del momento. Per esempio, quando preparai il centinaio di pastelli richiestomi per un albergo, per riuscire a portare a termine la commessa con la giusta tensione espressiva, ricorsi ad un progetto concettuale che ridefiniva l'iter con un preciso significato, legato a ciò che di uguale e diverso avviene nelle trentanove stanze di un hotel, Momenti simili ma mai uguali, grazie al differenziarsi di ognuno nel compiere gli stessi rituali.

Il mio approccio al foglio divenne il percorrerlo con uguale incipit, su cui veniva ad incidere naturalmente il diverso momento emozionale dato dal fatto che il colore stesso richiede dialogo mai sovrapponibile, se non utilizzato in modo preordinato o meccanico.

Quando iniziai a utilizzare le scatole era per impotenza allo stare a parete in un riquadro artificiale. Compressi i pastelli esponendoli in scatole da imballaggio per lenzuola, trovate fuori da un negozio di biancheria, in seguito nascosi i pastelli dietro muraglie di scatole per il trasporto della frutta, lasciando che si intravedessero solo spiando attraverso di esse. Da lì passai a porre l'accento direttamente sulle scatole, modificandone l'aspetto attraverso il decorticare la pubblicità di riconoscimento che le rivestiva. Lo strappo di modifica sul linguaggio, Rotella docet, diviene anch'esso appropriazione e pittura.

A differenza del quadro, l'uso delle scatole mi permette di far parte dell'agire della comunità cittadina in cui vivo. Posso avere involucri perché altri attorno a me li svuotano dei loro contenuti, che io ripristino mutandoli in altro. Non contengono più vitamine eduli ma pensieri, resi tangibili attraverso ingombri installativi.

Oltre agli imballaggi, cominciai ad impossessarmi dei volantini sparsi sulle auto di mezza Milano, dove vivevo da qualche tempo. E con essi iniziai il mio mosaico infinito, che di volta in volta prendeva forma nelle gallerie in forme diverse, che chiamai Concrezioni. Potevano essere piccoli assemblaggi da parete o intere pareti, dove gli elementi della comunicazione cartacea che raccoglievo per strada durante i miei vagabondaggi cittadini, da privilegiata flaneuse, divenivano tasselli di un'incrostazione di superficie, ricca di confusione riorganizzata in armonia cromatica, che purtroppo non mi ha mai abbandonato, venendo dalla pittura ad olio, meditativa, particolareggiata. Dura cancellare le cattive abitudini...

  1. Nelle tue opere il messaggio pubblicitario più che essere annullato si trasforma. A livello concreto vengono eliminate delle lettere o delle parole e grazie a questo intervento il significato che assume è totalmente diverso da quello originale, Da cosa nasce questa trasformazione e come funziona questo processo nella realizzazione dell’opera?

Ho sempre amato leggere, scrivere e giocare con le parole. Alcune le scarto, altre le conservo e impongo loro uno scarto di senso, svincolandole dal rigo assegnato e dirottando a dire altro, o quantomeno accennare ad altro, o costringo l'occhio ad inciampare in modo diverso sulle parole, più consapevole di stare decodificando un senso, anziché assorbirlo per “osmosi passiva”. Mi piace scardinare in altro, dare giusto degli input fuori luogo, manipolando screenshot presi dallo stesso luogo in cui ci si scambia comunicazioni.

Lo strappo e la piega ricollocano senso e attenzione. Maybe.

  1. Osservando le tue opere si nota una ricerca estetica tesa all’equilibrio e all’armonia.
    Questa caratteristica è presente da sempre? In che modo si è trasformata nel tempo la tua produzione artistica? Quanto le forme che utilizzi nelle installazioni rappresentano il messaggio che vuoi veicolare?

Credo che ci siano sufficientemente cose sgradevoli nella quotidianità di tutti, e che non abbia senso aggiungerne altre. Non è da me ricorrere a pugni nello stomaco per attirare l'attenzione, preferisco l'arma della semplicità di mezzi, dell'ironia, dell'armonia. Nessuna esibizione tecnica sofisticata che crei stupore e distanza, solo gesti, semplici come il respiro, che chiunque potrebbe fare.
Questa caratteristica toglie il mio fare da qualsiasi piedistallo, ponendomi in dialogo alla pari, con materiali conosciuti e frequentati da tutti nella quotidianità, pur se predisposti a farsi usare diversamente: come il trasformare le gomme da cancellare in strumenti per scrivere, come lo scrivere di filosofia su nastri da registratore di cassa, come il rendere inservibili i contenitori squarciandoli e rendendoli fragili strutture che “accennano” a paesaggi di riflessione. 
Spostare l'uso e il sentire, giusto di un passo, quel tanto che dia un cambio di prospettiva, un inciampo visivo. Lo scarto che propone uno scarto di pensiero.

  1. La scelta dell’uso del punteruolo come strumento di lavoro in alcune tue opere sembra derivare quasi da una volontà di rendere fragile una superficie fino alla sua rottura. Tuttavia il tuo intervento non è violento, anzi, l’oggetto diventa un luogo di assoluta riflessione. Che rapporto c’è tra il pensiero e le tue opere? Cosa ti ha portato a voler andare oltre il confine che la superficie impone?

Stavo riflettendo sul punto. Immaginavo che guardandolo ingigantito ci avrei trovato in nuce tutte le direzioni possibili per proseguire da esso a tracciare il segno. Mancava solo la profondità, il passare oltre. L'idea di tratteggio ad indicare un'ipotesi di apertura è da sempre in un angolo del mio cervello. Tratteggiavo pareti con immagini strappate su di una pellicola trasparente adesiva, suggerendo come la Rete, entrando nelle nostre case, strappasse le pareti come fossero un coupon da compilare e inviare altrove. Con internet i nostri dati ci archiviano in questo altrove che ci sfugge. Un tempo sulle riviste c'erano i coupon da compilare e spedire, per avere qualche omaggio, e anche allora il prezzo era la cessione de i nostri dati da aspiranti consumatori , raccolti e analizzati a campionatura. In cambio di un piccolo omaggio si diventava inconsapevoli cavie per statistiche.

Il tratteggio si ottiene anche forando, sfinendo una fibra dietro l'altra, fino al cedimento della superficie. Anche le lastre di marmo vengono estratte dalla montagna un foro dopo l'altro, fino a sfiancare la vena e poterne estrarre il blocco, pronto per una scultura o per farne lastre e gradini.
Un sentiero si percorre un passo appresso l'altro, una linea si traccia un punto appresso l'altro, anche se ognuno di essi resta invisibile a causa della regolarità del movimento. Se si tracciasse la linea visibilmente un punto dopo l'altro, magari forando la superficie, la sua vera natura di confine ne sarebbe evidenziata attraverso un “crollo strutturale” che isola lo spazio circoscritto dal contesto.

Con il punteruolo inseguo la forma tra le parole e le figure offerte dal supporto scelto, per lasciare o togliere, attraverso il mio tracciato, gli elementi preesistenti. Ogni punto chiama l'altro, determinando la rotta del segno finale.
Anche quando dipingevo andavo per accumuli di piccoli gesti successivi, fino a sfondare la superficie con la trasparenza del colore assorbito attraverso i vari passaggi che eseguivo, mettendo e togliendo la materia. Il foglio non acquisiva lo spessore del colore aggiunto, ma la profondità del colore elaborato su di esso.

Ora squarcio direttamente, ma è il pensiero che tiene il controllo, non più l'emozione, anche se alla fine resta un occhio di attenzione anche di tipo pittorico, è più forte di me. In questo riconosco che non potrò mai essere una concettuale pura. A volte più minimal, altre più pittoricamente esuberante, ma alla base c'è un progetto pensato, non tanto nella forma finale, che mi piace scoprire passo passo, ma nel senso che attribuisco ai diversi elementi che restano presenti nell'opera terminata. Anche se la parola “terminata” non è la più corretta nel mio caso. A volte mi capita che appoggiando distrattamente una scheggia del mio fare, questa scheggia impazzisca di nuovi contenuti entrando in dialogo con la materia su cui si è “confusa” a mia insaputa progettuale. Qui scatta il cogliere, l'accogliere, o il defraudare di questo bivio proposto dal caso. A volte accetto il dirottamento, o mi prendo il tempo, lasciando sedimentare la contaminazione, altre resto sui passi da me predisposti.
E' tutto uno stare in ascolto. Di sé e del caso, in complicità fluida.

  1. Spesso, come forma espressiva, utilizzi anche il video. Quale riflessione vorresti suscitare in chi guarda? Anche i video che pubblichi sui social li ritieni parte della tua produzione artistica?

    Utilizzo i video come sassolini nella scarpa, anche nel caso degli interventi sui social, senza soluzione di continuità. Resto in dialogo con qualsiasi mezzo mi si trovi a tiro. Non ho mai fatto del video la mia ricerca artistica prioritaria perché richiederebbe uno studio a sé di un linguaggio specifico che ha una sua storia e una sua evoluzione. Sarei una neofita, come se iniziassi a fare ricerca nell'uso dell'Intelligenza Artificiale, di cui resto curiosa e informata, accettando però il mio limite temporale e lasciando il campo di ricerca alle nuove generazioni.
    Per incidere in un linguaggio bisogna prima conoscerlo a fondo e solo in un secondo tempo lo si può scardinare e asservire al proprio scopo linguistico. Potrei avvalermi dell'intermediazione di esperti, sia nelle tecnologie che nei materiali che non conosco, ma qui interviene il mio limite caratteriale. Preferisco arrivare fin dove posso gestire con i mezzi più semplici e ordinari. Uso quindi la fotografia e i video senza velleità di fotografa o di filmaker originale, ma semplicemente mi esprimo con essi con la stessa allure che applico ad altri materiali, inseguendo il mio filone di interesse. Per esempio non essendo esperta di musica e sapendo quanto questa incida nella lettura di un'immagine, preferisco non avvalermi di colonna sonora o di chi me ne saprebbe proporre una, muovendomi piuttosto su casualità di rumori o sovrapposizioni temporali sempre date dal caso. L'idea di strappo da ciò che già esiste mi piace applicarla in diversi ambiti, ma sempre modulata sulle mie forze.

    Strappare, spostare e destrutturare senza necessariamente un fine costruttivo che proponga un'alternativa ritenibile più vera, piuttosto creare un inciampo di riflessione.

  2. Nella società contemporanea siamo continuamente esposti a delle immagini e ciò ci porta a non fare più attenzione a ciò che ci circonda. Pensi ci sia una relazione tra questo e il messaggio che vorresti trasmettere nelle tue opere?

A questo proposito mi viene in mente un intervento che feci su dei cartelloni pubblicitari tanti anni fa. Credo fosse il 1998. Ero in Austria, Cartellonistica a gogò, Io avevo iniziato a costruire le mie biblioteche verticali, fatte con le cassette della frutta mignon, non quelle delle arance, una taglia più smart. Giravo in bici nei pressi del luogo che ci ospitava e iniziai a raccogliere un filo di colore dalla pubblicità. Di sicuro quei cartelli segnati con una ondeggiante riga bianca avevano una rinnovata attenzione dei passanti, a causa del mio intervento. In effetti è un tempo in cui si sente più il bisogno di togliere immagini, più che aggiungerne altre.
Per anni giravo con la mia Nikon sempre pronta a cogliere particolari. Da quando tutti fotografano vado in giro disarmata. A volte estraggo il cellulare, ma è più per prendere appunti per i miei pensieri che per condividere la foto. Anche sui social preferisco più andare di screenshot, tutto viene e torna al mezzo stesso, che risputa e inghiotte e risputa. E poi svanisce tra i miliardi di dati.
Usare materiali fragili e provvisori, costruire installazioni mai ripetibili e definitive, qualcosa che vivi solo se sei presente, qualcosa di non adatto al discorso riportato, alla sola narrazione fotografica, priva dell'esperienza tridimensionale dei corpi a confronto in uno spazio condiviso. Nemmeno con la foto di un viaggio riesci veramente a condividere l'esperienza con chi non c'era. Resta solo il contorno, la struttura progettuale e concettuale da esperire con la mente e l'immaginazione. Diversa per ognuno, legata all'elasticità soggettiva del percepire in astratto.

  1. La tua attenzione verso la contemporaneità è percepibile attraverso molte opere.
    Il tuo obiettivo è esortare chi guarda ad aprire gli occhi verso ciò che sta accadendo nel mondo? È un modo per smascherare l'ipocrisia umana?

Credo di essere io la prima ipocrita, non in grado di affrontare le realtà più complesse in prima persona, compreso il tirarmi su le maniche e darmi da fare attivamente per giuste cause del disagio altrui. Accetto i limiti della mia ipersensibilità che tende ad assorbire talmente il disagio altrui da rendermi impotente nell'approntare soluzioni attive. Per cui limito i danni osservando e spostando tasselli come lampadine che si avvitano e svitano a seconda di dove sento che sia necessaria più o meno luce. Per esempio detesto l'eccessivo accento a tutta la negatività umana su cui gioca l'informazione, o anche il singolo pettegolezzo. Porre sempre l'accento sulle catastrofi ci appiattisce, spalmati sul pavimento, o meglio sul divano. Le disgrazie altrui ci fanno sentire meno le nostre. Ma ci tengono anche con gli entusiasmi al minimo, con le potenzialità intellettive sedate. Tengo l'occhio su ciò che accade intorno a me, ma ho fragili strumenti di intervento nelle mie mani, non essendo adatta a spostare i monti con azioni collettive. Ho provato più volte, ma mi sono sempre fatta assai male, perdendomi mentre accompagnavo altri alla loro destinazione. L'essere uscita dal quadro è stata l'unica arma che sapevo usare per dire qualcosa su ciò e come viviamo, pur senza possedere verità o soluzioni. Resto poco più che un ingombrante menestrello, ingombrante per me stessa, soprattutto. La prossima vita mi limito a scrivere. Basta un computer, o anche solo un foglio e una matita.

  1. Al giorno d’oggi quanto è difficile per un’artista bilanciare la parte puramente creativa con le esigenze del mercato o con la promozione di se stessi? L’uso dei social media facilita la percezione del lavoro da parte del pubblico e la semplicità con cui esso assimila il messaggio?

Tutto resta proporzionato a ciò a cui si da importanza. Le regole direbbero che un artista dovrebbe ormai tener conto di giocarsi un 70% in comunicazione e un 30% in lavoro di studio, o anche meno, se fai realizzare le tue idee da altri, visto che non è più una questione di misurarsi nell'abilità tecnica personale. Dipende se si vuole essere famosi per bisogno di palco e di pubblico o se si segue un'ossessione, un'urgenza, al di là di avere o meno l'attenzione e il coinvolgimento del Mercato.
Io non ho mai saputo promuovermi, anche perché avendo iniziato a fare seriamente relativamente tardi, non avevo la spregiudicatezza da ventenne all'assalto del mondo, avevo solo la mia ossessione in testa di trovare il linguaggio che si confacesse al mio silenzio, lavorando più sulle pecche caratteriali e sulle mancanze e i dubbi, che sulle convinzioni. Sono sempre stata una solitaria a cui piace snasare come gli altri riescano a stare in equilibrio tra il silenzio e il dire. Ho sempre pensato che l'uso della parola non fosse... equamente distribuito! C'è chi sa vendere anche il proprio fumo e chi non riesce a piazzare il proprio diamante, ritenendolo un vetrino colorato o poco più.
I social sicuramente agevolano anche chi non ha un carattere aperto e spavaldo, ma divengono anche una trappola rubatempo a vuoto. Io li adoro perché attraverso di loro ho potuto sbirciare in realtà che nemmeno immaginavo esistessero, tipo la testa dei tifosi sfegatati o dei leghisti... per cui ho poi capito di più come sia facile la manipolazione e gli esiti elettorali... il razzismo e i delitti... che prima con le mie lenti piccolo borghesi tutte rosa non potevo nemmeno avvicinare! Resto comunque consapevole di non saperli utilizzare al meglio come strumento di propaganda del mio lavoro.
Per esempio quando sono entrata in Instagram ho pensato ad un progetto specifico, i racconti da tastiera. Solo poi ho capito che chiunque incontrassi andava poi a conoscere il mio lavoro artistico in Instagram e ovviamente non capiva, o immaginava che quelle tastiere che postavo fosse la mia ricerca visiva. Difficile dirottare il senso di un mezzo se non ne conosci le regole, come dicevo. Infatti ora ho abbandonato il progetto delle tastiere quotidiane, posto a sentimento e mi pascio delle mie trentanove visualizzazioni e qualche cuore, beandomi soprattutto di essere seguita e quotata da un'artista che stimo e che non ho mai conosciuto di persona, anche se siamo nello stesso documentario, Clandestine. Ogni tanto la ringrazio di tenermi d'occhio. Se qualcuno guardasse il numero dei miei followers e mi valutasse per questo sarei spacciata a prescindere, da sprovveduta digitale, da boomer doc!

  1. Gran parte della nostra comunicazione quotidiana avviene attraverso l'uso dei vari strumenti offerti dal web, tra cui i social media. In questa era digitale cosa resta da comunicare all’arte e quale ruolo può svolgere l'artista?

L'artista non è un profeta e non ha un unico ruolo prestabilito. Come tutti gli umani deve convivere con se stesso e sopravvivere agli straventi del cattivo tempo e coccolarsi gli affetti. L'artista può anche scegliere di tacere e sparire, se ha la forza di viversi la sua ossessione in solitudine, magari idilliacamente sostenuto da qualche mecenate amico, da un fratello Theo, alla Van Gogh.
Non c'è risposta né formula né ruolo. C'è da lanciare il proprio primo sasso, che permetta di attraversare il guado verso la sponda che si vorrebbe raggiungere e sperare, lanciando il secondo e il terzo, che siano abbastanza solidi da tenerci con i piedi asciutti, o alla peggio che il guado non sia così impervio e profondo da ritrovarsi comunque prima o poi all'asciutto, o trovare un ponte, un altro sasso e non un gorgo che ci inghiotta.
Si prova ad inseguire la propria meta e se, così facendo, ha qualcosa di valido e interessante anche per altri, i suoi passi si faranno più sicuri e collaudati e porteranno in un luogo piacevole e asciutto anche altre persone. Anche in mezzo al frastuono di tutti che inseguono mille tracce di vita differenti, o calpestati dalla massa che scende la corrente perché non ha appigli per farsi forza nel cambiare rotta e darsi un suo progetto personale

  1. Essendo un’artista donna e avendo iniziato la tua attività da alcuni decenni, come hai vissuto il confronto e il rapporto con i colleghi uomini? Trovi che ci sia stata un'evoluzione o credi che una donna subisca ancora oggi delle discriminazioni nel mondo artistico?

    La prima e più profonda discriminazione purtroppo la subiamo da noi stesse, se nessuno si è mai aspettato nulla da noi, e ci ha plasmato secondo esempi di sottomissione ad altri, nel dare priorità e importanza ad altri e non a se stesse, al proprio sogno, al proprio istinto e talento.
    Dobbiamo aver coscienza di potere essere noi stesse il nostro peggiore nemico. Io infatti sono un campione nella sindrome dell'impostore, quella sindrome per cui hai la certezza dentro di te di non essere mai all'altezza, di non meritare ciò che ti accade di positivo e che sia solo tua la colpa di ciò che non va nel verso giusto.
    Ci sono sicuramente più donne ora anche nel campo artistico, ma solo perché c'è stato, grazie al maggiore benessere più diffuso, un aumento esponenziale di chi può permettersi di alzare la testa dai lavori di pura sopravvivenza e provare ad ascoltare e seguire i propri sogni, anche se inconsistenti. E nella quantità, non necessariamente tutta di qualità, ci sono anche più donne.
    Se andiamo però a leggere i nomi dell'Olimpo ufficiale, o delle valutazioni di mercanteggio, ci si accorge che a dare le carte vincenti è ancora soprattutto il regno dell'uomo e del gay, grande amico ma grande antagonista della donna, essendo dotato di caratteristiche che giocano doppiamente a suo favore nell'ambiente dell'arte.
    Di sicuro come donna ci vuole il doppio di tutto, di carattere, di bravura, di originalità, di socialità, di culo (altrimenti detto fortuna), di stronzaggine, di autocentrazione e narcisismo... 
    Poi, se arrivi con convinzione e tigna ai novanta anni, ti scorrazzano in carrozzella procurandoti mostre che implementino le tue quotazioni, perché altri vi possano lucrare dopo la tua morte.
    Ma non è detto che si ricordino di mettere il tuo nome nei libri della Storia dell'Arte, che comunque resta una narrazione revisionabile e soggettiva, fin dai tempi del Vasari.


mercoledì 7 maggio 2025

Bit e BYTE bitte

SVUOTO la quantità in gesto di struttura. Non scrivo lineare. Scrivo LINEARE e premo INVIO in pacchetti  e codici. Per pochi bit. Di parole e senso.

2013 Perché gli U-BOOK

Note a margine del fare con cui elaboro gli U-BOOK

Scalzo la narrazione dalla pagina e ne trasformo il racconto in raccolto cromatico impacchettato per il viaggio verso un ipotetico codice binario che ne trasformi i contenuti in dati archiviabili in cloud, in quegli spazi altrove di un pieno senza materia e vuoti d’ingombri. Memoria senza sguardi memori. Sfido chiunque a ricordarsi il contenuto del proprio archivio virtuale.

Per una biblioteca basta una carezza di sguardo che percorra i dorsi, e i libri prendono la consistenza mentale del viaggio compiuto al loro interno, o restano biglietti ferroviari, lasciati scadere o decantare, verso interessi resi già lontani dal procedere a valanga di un tempo consumato in esuberi di parole, sbiancate color pagina fino a disparire in quantità senza attenzioni.

I racconti perdono senso in piccoli pixel di colore liberati dei contorni assegnati e resi campionature, pur senza schedario e numeri con cui sia possibile renderle nuovamente riconducibili ad un’uguale struttura narrativa. Quando la traduzione tradisce ancora una volta i codici e lascia la pagina ad una recita a soggetto. raffo 2013



4 ottobre 2013 -  
Scortico il terzo libro di un'uguale stampa, e ciò mi apre gli occhi su ciò che cerco. L’attimo mai sovrapponibile a se stesso perché si differenza nell’azione.

Un po’ come l’atteggiamento che stava alla base dei 150 pastelli, nel 1991.

Gesti uguali con strumenti e spazi uguali con cui lasciar affiorare diversità emozionali e spaziali del momento in cui si delineano, pur nella ripetizione.

Ora affronto la stessa immagine all’interno della quale libero il colore da una forma riconoscibile per lasciarlo fluttuare. Pur scavando nella stessa immagine, pagine simili non sono più sovrapponibili.

Già il primo colpo di cutter determina una scrittura differente della pagina.
Se inizio incidendo un giallo, tutti i gesti successivi sono tesi a ritrovare un equilibrio di pesi cromatici e spaziali che non necessariamente vengono a riproporre gli stessi pesi/cromie smossi da quella prima incisione, su di un rosso o sull’eliminazione categorica del rosa...

I luoghi delle cromie sono fissi, in quanto il disegno è quello, ma le variazioni vengono sia nella dimensione del tassello preservato, sia nel gesto, sia dal come la pellicola di carta si sbreccia dal fondo, da come è stata applicata la colla di stratificazione sulla pagina... A volte il foglio si stacca senza arresto fino a bordo pagina, e correrebbe anche oltre il margine se ancora avesse spazio. Altre volte oppone decisa resistenza e mi ritrovo a incidere il bianco sottostante con una sorta di semolato dal ritmo quasi barocco e decorativo, che fa vibrare la superficie, modulabile a seconda di come procedo sulla pagina, in modo regolare o intervenendo invece qua e là in modo più caotico, o di come incido falsi riquadri le cui cromie poi non ho trattenuto e restano bianco su bianco, o intagliate nel grigio sottostante. raffo




venerdì 3 novembre 2023

2023 Strumenti minimi

 

Esistere non è circoscrivibile tra rigide parentesi di verità univoche. Anche i punti sparsi, apparentemente caotici, paiono ravviarsi in riga e tracciare coordinate, immagini, proiezioni, fori d'aggancio di una pellicola. E ognuno vive il suo film. Irripetibile.


STRUMENTI MINIMI e [.. … … …] OMISSIS

Dopo essermi incisa le Storie dell'Arte, Scienza e Filosofia sulla pelle dei giorni, i primi gesti appresi in vita mi sono divenuti da tempo un sufficiente bagaglio per trasformare materiali comuni, a inseguimento delle mie riflessioni.

Non metto più in gioco nessuna abilità tecnica particolare, ma solo l'attenzione a cogliere i bivi del pensiero o delle suggestioni nate dallo stesso agire sulla materia, e che la materia restituisce e moltiplica indicando ulteriori riflessioni e gesti; per accumulo o per sottrazione, entrambi silenzianti un dire imposto allo sguardo, che sia esso di merce o parole.


GESTI MINIMI e ripetuti.

Piegare. Scalfire. Bucare. Crivellare. Timbrare. (...)

Disegno modificando le narrazioni dei supporti comunicativi che ci “imballano”.

In punta di gomma, di punteruolo, di taglierino, a seconda del fine.

Attingo al colorificio offerto dal vivere la città.
Trasformo scarti cartacei in schegge di nulla che rendano tattile il riflettere, pur senza risposte suggerite.
Vuoto in silenzi alchemici il troppo detto di forme e parole.

Strappo virgole cromatiche, da erigere in Aste senza martello.


Accentuo i rimandi del frammento a punti sospesi fuori di esso da immaginare seguendo il personale sentire. [.. … … …]

Nell'orizzonte, all'orizzonte, sull'orizzonte di ogni Presente, inteso come Tempo e Persona, suggerisco spunti e verticalità instabili e mutevoli.

Poco più che input. Urlanti o muti. Dipende dalla pausa in essi.

La carta, anche la più qualunque, ha diritto di respirare una seconda assenza.

Prediligo materiali offerti dall'inciampo: manifesti, volantini, imballi, fogli scolastici, quaderni e gomme, oggetti destinati a ben altro costruttivo impiego che non le mie umbratili piegature, timbrature o distruttive crivellazioni, che rendono inagibile il contenere e la certezza dei contenuti già dichiarati.

Ci sono costanti nel mio fare, verificate negli anni:

la verticalità, lo scorrimento, lo strappo con dislocazione, il modulo moltiplicantesi nello spazio e riposizionabile senza fissità di forma definitiva.

Caos tracimante e rigore silente in dialogo. L'incombere e il circondare.
O una disseminazione modulare silente. Micro fratture in frammenti frattali.
A disposizione esperienziale di sguardo e pensiero.

Buon ascolto. 
Raffaella Formenti -  novembre 2023


     

silenzio tattile

guarda il video  in  @multiRaffo



sabato 9 gennaio 2021

2014 - L'ABITO di BIT

L’abito  di  BIT

Abito il mio abito imbastito in foto e scritti

mi spendo senza corpo in Rete per tratteggiarmi idea.

Piantumo in link i miei chiodi fissi che galleggiano in un tempo senza luogo e data

E tutto è in App e nuvole senza fumetti.

A tratti astratta dimentico i codici d’accesso per incontrarti reale e non so più la password

per attaccar bottone e sorriderti. Provo lo smile mentre mi slaccio ogni formato tattile.

Passo on line e m’incasello in bit.

Uomo, donna, altro.
Magro, grasso, altro.
Alto, basso, altro.
Povero, ricco, altro. 
Indigeno, importato, altro.

Mi registro in cloud con volto nudo

e mi vesto di nuove misure, per dirti chi sono nello specchio della sfera di cristalli liquidi appianati in monitor.

Sbircio chi sei, chi ti dici di essere, chi ti credi di essere, chi vogliono che io creda che tu sia, chi penso di credere di vedere che i bit che abiti siano per te, cucendo un vestito di sguardi con lo scroll con cui illustri eventi e ti incoroni divo sul palco senza tende.

Re a rate in rete senza abiti e ruote.

Vestito in diretta, di trasparenze, passioni, amici, libri, sport.

Ogni casella ti ricuce in forma quasi 3D al mio tatto in tasti.

Ti seguo passo passo 1011011110010001111100000111110101100100001111
senza intasare la città di spostamenti, cercar parcheggio, comprarti una bottiglia contro il solito ghiaccio che si forma nelle distanze e offusca il dove sei, anche se ti ho di fronte.

On line è più… ma anche meno…

Ma è quello che è questo ora, che ho schegge di tempo senza costanti libertà di divagare, con una felpa buttata sulle spalle a celare le ali che vorrei, per capire l’altro senza le bucce dei rituali. Accendo la webcam e ti lascio entrare.

Una chitarra nell’angolo dice cose, mentre ti parlo senza nemmeno essermi vestito.

Non abito abiti, nel nuoto fuori pista della Rete, cercando input e neve fresca, cercando incontri a specchio, perché il vicino è uno scarico rito quando suona per l’aneddotico zucchero a pretesto. Tocca vestirsi, aprire, riassettarsi.

Esserci.

Entro dal monitor e allungo senza fiatone il passo in link, con la mise dell’anima in pensieri leggeri, giusto quel velo di stanchezza agli occhi e le ciabatte ai piedi.

Un click e un altro e un altro, e slaccio tutti i bottoni del guardaroba inamidato di convenevoli, e mi rifaccio un guarda roba in bit, nuovo ad ogni like, tessendomi a misura di scroll in scroll, forme e pensieri, corazze e nudità.

Raccolgo input sparsi lungo il filo dipanato da altri e resetto chi non mi garba, pestando pareri avversi a piedi nudi senza dover chiedere scusa o temere di sgualcirmi la giacca in un cazzotto d’impulsi.

Navigo a vista o cerco, con la pedanteria di uno studioso in caccia, quel tassello che non è mai l’ultimo, come le dune e i monti.

Ancora un click, quasi una droga.

Il surf del selfie, dichiarazione di esistenza in vita, un riquadro d’effige luminosa, uno smile per presenziare il bordo di un monitor a pozzo dissetante.

Non credo di poter mancare un centro che non c’è.

Messo a nudo, fluido, mi tuffo.

Così vasto mi basto, e corro dietro all’ultima news ancora da accertare.

Nella mia sola pelle di pensieri, navigo e mi tratteggio a piacere, mentre smonto d’abito mentale dal sito dell’azienda e indosso i panni da chat distratte o dialogo marcando a vista il cugino d’Argentina, senza inquadrarmi oltre la spalla da cui sfugge villana la coperta di Linus, messa alle corde dalla mia stessa vita.

La vastità di input sommerge il tempo e mi riveste in pixel senza misure da sarto.

Sono nuda sinapsi transgender affacciata ad un cortile senza muri, mentre ne crescono sempre più solidi in 3D reale, a cieca corazza che cancella l’empatia e l’affetto di un vestito stropicciato in due.

Raffaella Formenti per TAM TAM - 2014



VIDEO - voce recitante LAURA FORMENTI ABITO di BIT per TAM TAM - voce Laura Formenti - YouTube



martedì 10 maggio 2016

About ATTITUDINE nel lavoro

L’attitudine con cui lavoro è legata al concetto di DERIVA:
perdere controllo, riprendere controllo, lasciarsi condurre dalla casualità, tornare sulla rotta restando vigili alle suggestioni dell’ambiente.
Navigare nella realtà come si fosse all’interno di un cervello elettronico con molle che scattino in libertà e costante riferimento al web, da cui attingo le terminologie per farne parodie cartacee, ridisegnandone con l’ironia l’aspetto più fragile e umano.

Mi piace scardinare l’esito finale di un messaggio e dirottarlo a campo di colore.

Non sono una rigorosa, mi piace fluttuare e inciampare, e anche stare seduta ad attendere.

In questi miei venti anni di ricerca, che calcolo da quando ho abbandonato il ring della tela per espandermi su qualsiasi cosa mi incuriosisca, credo di avere delineato un mio linguaggio, un alfabeto che si nutre e si visualizza in differenti media e materiali: la carta, il monitor, la foto, il video, la performance.

Quando penso di aver trovato qualcosa che valga veramente la pena di mostrare, chiedo a qualcuno di fermarsi un attimo e guardare, attraverso i miei occhi, attraverso il mio lavoro, ma non è semplice. Il rituale di una mostra non è mai ottimale per un vero confronto con l’altro. Lo scambio arricchisce e consolida le mie certezze di non essere fuori strada, anche se è sterrata e in salita. raffo  


RAFFO in 4 righe

Volevo solo scrivere e viaggiare nei luoghi delle parole, ma anche le mani hanno preteso il loro spazio d'azione, impuntandosi a piegare i contenuti della comunicazione in cromie invasive e spunti di legame tra il cartaceo e l'informatica.

Come in un QR Code, la “spiegazione” è sempre nello scatto che segue, nella piega ancora da indagare. raffo





DLL - In informatica, una Dynamic-Link Library ( libreria a collegamento dinamico) è una libreria software che viene caricata dinamicamente in fase di esecuzione. LIBRERIA CONDIVISA

lunedì 13 maggio 2013

2013 ABOUT... - Vicenza. Laboratorio AB23


Scusate se per il bene delle vostre orecchie ho scritto due righe, altrimenti, non avendo dimestichezza con la parola agita, rischio di finire chissà dove, in qualche pozzanghera a girare a vuoto senza trovare come uscirne e riempiendovi di schizzi inconcludenti, anche se sarebbero pur sempre d’artista…



Per chi, e soprattutto perché, lavora un artista?  Per esistere a se stesso, innanzi tutto, per scrivere da se stesso dei confini e prendere in essi forma, senza la quale non c’è leggibilità e comunicazione con l’altro da sé.
Adamo chiama ogni cosa con un suo nome, che diviene simbolo e significato di essa, e con esso la distingue. Adamo con questa parola, intermediario virtuale, può comunicare, e pure tweettare…. 
Può comunicare con un’altra persona che conosca le stesse simbologie… Ed è forse per questo che anche tra artisti non si parla più molto, non ci si confronta…. Ognuno si dedica all’approfondimento delle proprie simbologie, sempre più specifiche e differenziate, e non riconosce e analizza quelle altrui se non per denigrarle. Un po’come si vive la politica, un frazionamento egotico con  interazioni solo di convenienza e per massacrarsi a vicenda arroccandosi sul proprio terreno.
L’artista s’inventa delle simbologie a parte, un codice suo, una sua musica, qualcosa che dal suo sentire/riflettere/fare prende forma e inizia ad esistere, in primis ai suoi stessi occhi, e poi agli occhi di chi voglia ascoltare una nuova lingua, o una modulazione delle precedenti con nuove parole.
O con differenti silenzi.
La chiamano creazione, a me piace chiamarla alchimia.
Alchimia è quando una materia diviene altro e perde il nome che le dava confine, quello con cui la si era conosciuta, definita e ingabbiata in formula.
E da qui riprende la gara di Adamo. 
Davanti a questa nuova “cosa”, deve ri-trovare la parola più adeguata per dirla, per nomarla, per normarla a regola di lettura.
Ma qualcosa che è totalmente definibile in parole perde in parte il senso della sua forma ed esperienza visiva, quella attivata con tanta fatica dal fare creatore che elide e moltiplica la superficie di ciò che conosciamo per amplificarne il senso.
Troppo spesso a questo punto, a opera fatta, si toglie all’artista il ruolo di Dio-Adamo e lo si confina a Costola, costola intercambiabile di un sistema che ha costruito nel tempo precise gerarchie e normative. Inizia così un lavoro di delega quasi in bianco del proprio pensiero in mano ad altre persone che lo traducano al mondo. 

Non me ne voglia lo Studioso e critico d’arte qui presente, che rappresenta in modo saporito e positivo proprio uno dei poli di queste gerarchie, in origine il polo dei traduttori e traghettatori… in origine, ora sempre più di detentori del Verbo che nomina e dà forma pure all’artista stesso, che da creatore diviene spesso solo un girabulloni alla Chaplin,intercambiabile a piacere come pedina di un altro gioco che non gli appartiene più, o a cui sceglie di appartenere.  

Ma con i giusti interlocutori, qui ben rappresentati, l’artista e l’opera tornano al centro e gli artisti possono esprimere la loro diretta traduzione, visto che a volte sono bilingue: non nel senso che sanno l’inglese o hanno vissuto all’estero, come nel caso di Pozzi, o dall’estero vengono, come nel caso di Irma Blank…, ma nel senso che sanno usare il verbale oltre al visivo. E anche il pensiero, talvolta almeno... a volte è meglio non lo facciano. Spero non sia il mio caso…



Una narrazione che il più delle volte non ha spazio per confrontarsi, mentre a volte, come in questo caso, gli si mette a disposizione una terra di sperimentazione, l’occasione di un libro, una Collana di dialogo, uno spazio speciale per dirsi.
E l’artista ringrazia chi gli lascia la parola, chi gli dà un luogo in cui prendere forma e delineare il proprio sentire, un frammento della propria visione del mondo.  

L’altra settimana ho partecipato a un incontro di scrittura teatrale riguardante i monologhi. 
Un punto mi è rimasto chiaro, che collima anche con l’arte visiva e con la scrittura tout court:
ognuno può avere una storia da narrare, ma perché questa storia prenda forma per essere narrata e ascoltata da altri deve contenere un’urgenza in più, qualcosa che ci ossessiona, qualcosa per cui ti scappi di alzare la mano e prendere la parola, anche se sei il più timido della Terra.
Per far questo ci vuole anche che ci sia il tempo della riflessione e la democrazia dell’ascolto, che si sia liberi di alzare la mano, e che esista uno spazio, un teatro, un libro, unagalleria, un monitor, un marciapiede in cui esprimersi.
Questa collana Memorie d’Artista a cui mi è stato proposto di partecipare, è ilmettere a disposizione dell’artista visivo un diverso palcoscenico, quasianarchico rispetto alla crescente chiusura di teatri e di spazi autenticiattraverso cui incontrare e scambiare cultura.
E quando dico teatro intendo unluogo amplificante, non necessariamente dove si reciti, ma ogni luogo osupporto in cui si agisca uno scambio.


Scambio che sempre più raramente avviene nel mondo dell’arte, anche nelle Gallerie stesse, tese più al business del mercato che all’ascolto della Ricerca, la quale ha un’antica storia da cenerentola marginale, per pochi, o almeno così lo era quando l’opera era al centro del dibattito, e non pretesto per salotti e misurazioni di potere sociale. Ora c’è anche il palcoscenico della Rete, il massimo apparente di libertà, ma ogni brusio troppo intenso che divenga rumore reiterato, tende a spegnere la nostra soglia di attenzione. Il troppo stroppia, dicevano una volta. 

Anche se è corroborante che ci sia una tracimante scelta di voci, a volte il sussurrato di un libro è più dialogante, perché i tempi e i modi li si sceglie individualmente, senza rincorse e pressioni, compresi i pop up che ti si aprono mentre stai leggendo sul monitor, o la pubblicità che sbuca da ogni dove. Sbuca anche dal mio libro, in quanto è il materiale con cui lavoro di preferenza, e fa da controcanto alla raccolta di email attraverso cui mi racconto e racconto come vivo questa mia ossessione dell’Arte.  Un racconto solo per frammenti, spiati dal bordo di un monitor,come quando si ascoltano telefonate fatte ad altri e da esse si delinea il carattere della persona che abbiamo davanti, in questo caso l’esercizio è saper leggere tra le righe mancanti. 
Quando Peccolo mi ha chiesto di scrivere "memorie", ho pensato che, lavorando quotidianamente sui frammenti del dirsi e del tacere, anche in questo libro avrei potuto fare altrettanto, misurandomi con un diverso supporto espressivo.
Peccolo, con la curiosità del dietro le quinte di ogni recita,  ha fatta sua l’urgenza degli artisti di dirsi in prima persona, con la consapevolezza di un pensiero autonomo e l’urgenza di condividerlo nella differenza degli stili. E questa diversità di espressioni e riflessioni sono, libro dopo libro, raccolte da un cercatore di frutti di bosco, come ama definirsi Peccolo, che non cerca le luci della ribalta precotta scegliendo l’artista di moda sul mercato, ma scava un suo sentiero anche tra i rovi delle dimenticanze, dando la parola all’Arte non solo con la sua Galleria ma anche con queste Edizioni.
E anche per questo lo ringrazio, per avermi messo nel cesto, a condividere e confrontarmi con voci diverse, diversi codici simbolici, ma uguale spirito di autentica urgenza nel proprio fare arte, in condivisione con chi voglia porsi in ascolto. 
Ascolto di cui vi ringrazio stasera, come ringrazio di avermi costretto a questa esperienza di forma verbalizzata che raramente pratico. Infatti ho dovuto scrivere, che mi è più familiare, per non inciampare in un labirinto di troppe parole nella giungla della mia testa, a cui piace andare a piedi e perdersi per via. Il Tempo qui è segnato dai giochi di ruolo e dalle gerarchie, ed è meglio che parli chi più di me è avvezzo ad avere un microfono dalla parte del manico. O della presa di corrente. 
 


Raffaella Formenti -    Vicenza 2013

2014 About CLOUD FRAG

ISTRUZIONI D’USO per CLOUD FRAG

Disporre il “corpo molle del conoscere” nello spazio visivo, dandogli una parvenza che assecondi il proprio sentire.

Il chiodo rappresenta il punto di scelta nella lettura dell'oggetto e diviene protagonista affidatario dell’intervento di memoria formale impresso al frammento di cloud. raffo 2014


2011 PIXEL YIN YANG

Dove si vaneggia di un COMBIvisore A4 PALmizi e vari segmenti, per infinito SECAMore cartaceo.




Ragionando attorno al pixel, è nata questa forma. Con relativo panegirico di companatico da leggere senza panico. addentando pane e nutella. O mortadella, se si preferisce il salato. Il conto non lo è. Lo salto. Conto fino a 180 e mi arrendo. Avevo trovato un percorso molto più complesso… ma 180 pezzi unici… compito ingrato… 180!
180 gradi. Un angolo piatto. Come d’autostrada.
Non sempre la vita è un’autostrada, non sempre l’autostrada è l’A4, ma sempre l’A4 può, da superficie piana, girandoci attorno,divenire uno spazio di pensieri. Sia che si materializzino in parole tracciate su di esso, sia che il foglio stesso prenda altra forma e divenga “luogo madeleinette-proustiano”.
Come nel caso del nuovo pixel Yin Jang, che non è ping pong, ma forza di coesione e libertà in giusto equilibrio, un vincolo svincolante. Non un vicolo cieco. Un vincolo in cui la coerenza con se stessi possa incontrarsi in modo armonico con la fedeltà alla propria scelta di condivisione con l’altro, a costo di fare la piega per qualcosa, quando la piega sia di rinforzo, non di costrizione. Costruzione, sì. A4 mani e A4 occhi.
Un foglio solo, un terreno comune, con due presenze distinte e un progetto comune che le intreccia e rafforza in questo nuovo pixel, contenitore di energia per inventarsi ogni nuovo A4 ancora da scrivere. Dove l’A4 sia una strada scelta e non imposta da due caselli predefiniti in codice binario. 
Troppe caselle di certezza tolgono sapore al percorso.

Una COMBIvisione… 
Niente colla per fissare in unica forma, ma piccole variabili, 
come virgole che lascino inventare spazi aperti.
Solo uno stralcio di carta di cui ogni piega ne rafforza il farsi forma for menti.

E chi lo getta è perduto. 


Non storcerei il naso se il mio scritto risultasse contorto, o se pensaste che ho torto. 
Se il COMBIvisore non quaglia, nessun vincolo né colla: una bella pallottola (il foglio) e liberi di cercare altre vie. 
Lungo l’A4 e oltre, senza caselli e caselle. 
Svincolati voi, svicolo io…
Se invece vi garba una micro installazione prima della diaspora di mano in mano, per dare all’occhio il valore aggiunto dell’insieme.


Vi si può infilare un messaggio, una data, un foglietto… ma
se diviene scatola d’uso perde l’aura e torna foglio di carta usa e getta.  rf

2012, Sara chiede, RAFFO ne risponde


Appunti distratti tra pieghe senza spiegazione, poco più di una conversazione, per Sara Faccin e la sua ricerca 


-perché non dipingi ma hai scelto di fare altro? dipingevi prima?

-Ho dipinto più o meno fino al ’95, ma già dal ’92 ho iniziato a celare la pittura (in senso proprio anche fisico…) dietro ingombri cartacei o dentro scatole e contenitori, e per tre anni i due percorsi si sono affiancati/integrati. Il colore prendeva materia su fogli di carta da disegno standard, A4 da album scolastico.   Volevo agire sul supporto più anonimo con lo strumento più elementare, usando unicamente pastelli ad olio, la forma di colore più prossima al semplice pigmento sfregato su una parete con cui l’Uomo iniziò l’avventura sciamanica della pittura.
Volevo che al centro del mio fare non ci fosse la ricercatezza dei mezzi usati o la perizia tecnica, ma la semplice urgenza del colore di farsi pittura. Per questo mi ero lasciata alle spalle anche il periodo di pittura a olio, a velature con pennelli di martora e particolari rifiniti capello per capello, che precedette il mio iscrivermi all’Accademia. Sicuramente un periodo utile per affinare lo sguardo sul colore nel suo farsi armonia o stridore, ma non in sintonia con le mie urgenze espressive, (dava solo più spazio allo sbarcare il lunario… il figurativo ha un pubblico più ampio…) La scelta di agire su fogli ordinari sottolineava, nel mio intento, il limitato spazio a margine in cui il ritmo del “fare per essere” relega il pensiero di ricerca del sé. 

Intervenivo sul foglio con un accumulo di segni che venivano a costruire una tessitura di cui si impregnava la carta e si delineava uno sfondamento della bidimensione in un’astrazione d’atmosfera lirico espressionista. Scolpivo con il colore a colpi di lametta da barba, mettendo e togliendo la materia pittorica fino a che il foglio pareva perdere la sua bidimensionalità e i segni di pigmento, spatolato dalla lametta caricata dal suo togliere materia, restavano come sospesi su una non-materia luminosa. Tutto questo, ripensandoci ora, molto in continuità lineare con l’esplorazione dell’astrazione lirica e la sensualità del colore nel suo svanire in luce che affrontai nel periodo dell’Accademia, periodo in cui mi resi conto di interrogarmi non tanto sulla pittura in sé, materia, gesto, colore, spazio, quanto sui materiali, sui supporti, e di avere anche un’esigenza di dialogo con la quotidianità e il desiderio di diminuire la separatezza del linguaggio pittorico rispetto ai gesti della quotidianità. L’usare materiali già codificati per “fare pittura” accentua la pittura come mondo a sé e io vorrei incidere nella decodifica dei segni e sogni della vita, e non dialogare solo con le ricerche pittoriche esposte nei musei o studiate sui libri. Sento la pittura in strada, là dove i Novorealisti la indicarono, e in strada iniziai a cercare le mie risposte. Le prime installazioni con materiali da imballaggio nacquero per esprimere il mio “ingombro mentale”, chiamiamola allergia al fare pittura che richiedesse supporti, cornici, attaccaglie e vendita a punti, a cui si sommava l’odio per come la conoscenza del lavoro degli artisti sia sempre mediata da pessime foto da catalogo che ne distorcono ogni senso.

 …Ero stanca di litigare con i colori sbagliati delle tipografie… I rossi non corrispondevano mai ai miei rossi! Perdevano sensualità ricordando solo il pomodoro da pizza… Esagero ovviamente, ma nemmeno troppo!Volevo eliminare una serie di vincoli, e le scatole raccolte nei supermercati furono la mia prima risposta per legare il mio percorso d’arte alla quotidianità, mia e altrui.
Come il pittore rupestre che contribuiva alla caccia con la sua abilità di narrazione visiva, così io iniziai a nutrirmi dei resti della caccia altrui: le scatole e le pubblicità.
Più gli altri consumano e comunicano, più io ho di che lavorare: le scatole svuotate dagli acquisti sono il colore con cui esprimermi. Non per un intento di riciclo, ma per una ritrovata partecipazione al ciclo sociale. Mi è sembrato il modo per rendere la città il mio territorio di caccia, senza essere io a darmi in pasto a colorifici e corniciai… e per avere sempre con me gli strumenti, scatole e volantini rintracciabili ovunque, con cui costruire installazioni e concrezioni, pensieri cartacei in 3D, anche viaggiando leggera, un po’ di colla, una pistola per colla termica, un po’ di scotch, e le mani in tasca in giro per le città.


 -però comunque il fattore cromatico è un elemento del tuo lavoro, almeno per quanto risulta alla mia visione, non credi sia un po' pittura allargata?
-Sicuramente è pittura, quasi a pieno titolo, anche se alla base del mio fare c’è un concetto che esula dagli interrogativi della pittura.

Nasco pittore e il mio occhio non demorde a tirarmi in quella direzione. A volte lo vivo come un limite. Sono cosciente che l’equilibrio cromatico è un di più che distrae dai concetti da cui nasce il mio lavoro, ma la pittura resta per me una chiave per “incartare” gli sguardi a fermarsi, il mio per primo, e soprattutto una porta alchemica di vitale importanza.
La prima volta che capii questo, fino nelle mie cellule più recondite, fu davanti a un sarcofago egizio. Ero alla National Gallery a Londra, e guardando quattro assi dipinte, inchiodate a comporre una cassa da morto, capii il senso alchemico del dipingere.
Non era un sarcofago prezioso, era uno dei più semplici e rudimentali, e lo strato di colore che ne decorava le assi non aveva nulla di eccezionale, ma, fissandolo, mi resi conto di quello che esso provocava su quella materia: la scatola di legno si trasformava da contenitore a luogo di passaggio, diveniva porta di accesso ad una dimensione immaginaria. L’uomo aveva dipinto quelle assi perchè il morto potesse passare dalla materia di una superficie ad un luogo di viaggio. Stetti male: per due ore non riuscii ad aprire bocca né a muovermi. Mi girava la testa e avrei voluto fermare quel momento di folgorazione e fissarlo per sempre nel mio sentire. Era una risposta senza altre vie d’uscita sul senso della pittura, che poi purtroppo ho più volte perso per strada, sporcandone il senso alchemico con urgenze concettuali che dirottano in altra direzione la mia ricerca. 

-credi sia possibile ancora dipingere oggi?

-La pittura va oltre ogni cecità d’animo e vivrà fino a che ci sarà pensiero libero.
E’ tutto ciò che si è costruito attorno alla pittura che andrebbe smantellato per ripristinarne l’essenza alchemica, che vien meno ogni qualvolta si riveste del “riprodursi in prodotto” senza  pensiero di ricerca. Io continuo a vederla come urgenza di approfondimendo di interrogativi, e non come furbizia/scorciatoia per ego ipertrofici a caccia di un prodotto azzeccato con cui far soldi.
Lo spazio, sempre più risicato e a margine, lasciato a chi ha la volontà di far ricerca e cultura, è territorio di libertà d’espressione. E resta tale almeno come utopia… 

Sara chiede. RAFFO ne risponde.   maggio 2012

estratto da "VALE LA PENA?"

lunedì 10 dicembre 2012

1992 about PASTELLI - appunti ritrovati


Container di colori. Escrementi di pigmenti oleosi appallottolati in concentrato d’essenza. Esistenza. Continuità nel gesto fino al limite esterno di un foglio formato UNI previsto dal codice di taglio per un proficuo impiego di carta. In un tempo di espansione oltre le misure di gestualità possibile che richiede elevati affitti di studi-ex fabbrica chiusa per recessione. E lo sponsor dov’è. Ragionieri in banca e Mister Hyde di notte, per autofinanziamento del proprio doppio celato. C’è lato. UNI. Foglio standard che accoglie pigmenti riciclati di un ieri a colori che torna a puntate, a tracciare il seguito di un gesto introverso e pensato. Riflesso. Di un altrove vitale evitato. Celato. Pensiero trasparente di pellicola per alimenti che conservi intatta la fragranza di una tenue vibrazione di animo perso. Un tanto al metro. E me lo faccia di quel bel rosso vivo che risparmio la legna.  E ci sto davanti in poltrona per quei cinque minuti di relax senza camino. E’ triste fissare il termosifone. Pratico, caldo ma gelido. Gelo solo a pensare i prezzi di cornici e telai. Mi basta un foglio di appunti per oggi. Domani è diverso. Se torna. Quando torna il domani non è lui. E l’oggi mi sfugge e si squaglia in un gesto. Che scioglie il colore sul foglio con la sola energia del tracciare. La traccia di un moto distratto? La traccia di un colpo inferto. Automatico. nervoso. calibrato. deciso. strabordante. Qualsiasi aggettivo, e altri ancora, e anche. sbagliato. Forse il più bello. Un segno sbagliato acuisce di nuova attenzione l’azione. E cancelli. Chiusi. Davanti a luoghi fuori orario in cui potresti vedere quei quadri che costano code di massa per sparpagliare cultura e rimpinzare casse senza risonanza magnetica.
Cerco neurotrasmettitori attivi.  raffo

lunedì 22 ottobre 2012

2012 - Bit e BYTE bitte



SVUOTO la quantità in gesto di struttura. 
Non scrivo lineare. 
Scrivo LINEARE e 
premo INVIO in pacchetti  e codici. 
Per pochi bit. 
Di parole e senso. 

BYTE. Alterano spazi e piazze. 
Nessi sconnessi. Deviazioni. 
Lavori  in corso nutriti di colore.  
ZIPPATI germinanti in cerca di erezione. 
Passi scompaginati senza rilegatura. 
Appunti in dispersione a fare. 
WWWiki Scraps confusi.

E posto ai posteri sfrucugliar di parole che sottenda giochi alti ed altri, che a specchio prendano colore.
Non posso dire quanto l'imbalsamatura in BYTE le improverischia in verità, inconsistenti e fatue, anzi famieInfamie di ubriacatura a tasto, su cui calare velo e non ribalta, che ne ribalti il senso gioco in false verità, colate ai posteri ma già scollate. Dal dirsi ragionevoli. Dal senso unico alternato ormai alterato nel sapersi altrove a diffusione. Ping pong privato deprivato di origine certificata, che cerca e trova gusto di rimbalzo in altre pareti.
E sposto. Bisturi a freddo, senza il contesto che ha tagliuzzato il testo in lacci liberi dai fori in cui erculearsi a stringere pensieri e un dire che abbia senso costruttivo o di ordine alfabetico. BYTE da registro, indice, archivio. Dimmi tu. A cui so di dar diletto a stomaco incauto e senza marciapiedi cavalcante glamour in polveri sottili, di smog e strisce opposte ai semplici pedoni.  Pedine. On line. In gioco di parole senza il ruolo del dire. Suolo di porte in link saltellanti, tra sinapsi e sintassi, lanciando sassi alle vetrine e merletti in fuga da tomboli e tromboni senza spartito condiviso. Ora. E qui. Butto i dati in pixel e non rileggo. Non rinnego e firmo. 
rf - ottobre 2012                   
(appunti per l'evento a Spazio ISOLO -Verona)

venerdì 2 marzo 2012

2012 - E_MOZIONE


                   video  E MOTI ON    >    E MOTI ON