CLIK. E’ lo scatto dell’otturatore, suono solo simulato ed elettronico della mia inseparabile Olympus digitale. Mi prendono in giro perché la estraggo di tasca nei momenti più improbabili, l’accendo e scatto con una mano sola, strappando un istante allo scorrere della giornata. Catturo immagini, frammenti senza cronologia. Così come riporto in studio dal mio girovagare le spoglie inermi del consumo, scatole, involucri sventrati dall’acquisto, e colorati volantini che ne propongono il godimento. Colori e forme del comunicare, veicoli che trasportano nutrimenti e desideri, scorze in carta di sogni e progetti, con cui invado me stessa e gli spazi espositivi dopo aver dato loro nuove forme, cromie e significato, trasformati con immagini e strappi.
STRAPPO. SCATTO. CLICCO. Riverso nel computer ondate d’immagini e le rimescolo a suon di mouse sul monitor, inseguendo imprevedibili combinazioni di frammenti che si intersecano con le scritte stesse di Photoshop. Respiro in zapping. Lo si fa ormai con i film, i libri, i pensieri, le persone. Momenti, come cocci di un insieme che non si arriva a leggere nella sua interezza, strattonati da sollecitazioni che si accavallano sovrapponendosi di prepotenza al semplice porre un passo appresso all’altro, senza una mèta, lasciando che oggetti e luoghi configurino con casualità il dove.
CLIC. Una foto archiviata che non risponde ai comandi. Esce una scritta che annuncia un guasto nel salvataggio. Un errore. Il codice binario è uscito di rotta e dallo sbaglio nasce l’imprevisto. E trovo. Forse ciò che cercavo. La chiave per unire i miei strumenti in dialogo: scrittura, fotografia e materia.
La mia attitudine sul lavoro ha sempre conservato il gesto quasi sospeso della scrittura, uno scrivere con le cose che si trasformano una con l’altra attraverso spostamenti minimi, quasi trattenuti, con un oscillare continuo tra il controllo totale della mente e il perdermi nel lasciar parlare la materia stessa. Lo stupore deve essere il mio per primo. Se ogni volta che lavoro sapessi già l’esatto risultato sarebbe la noia. Non reggo la ripetizione del fare, che porta a qualcosa che già conosco. Per chi segue il mio lavoro questa affermazione sembra quasi una bestemmia. Mi vedono da anni costruire pixel, piccoli origami che utilizzo come tessere di colore per le mie concrezioni, piegare carta con gesti che compio ormai a occhi chiusi, mentre girovago per la città ad ascoltarla correre. Eppure un’apparente ripetizione infinita mi tiene saldamente in pugno solo per l’infinita diversità possibile dell’utilizzo del materiale che si addensa di volta in volta in variabili combinatorie.
E ogni volantino piegato in pixel è una nuova scoperta di come andranno a combaciarsi i colori, studiati dal grafico per “imballare” il messaggio, e ora stravolti da una piegatura che ne costruisce un nuovo ritmo.
E l’illeggibilità. La parola torna colore e tace il messaggio esplicito, azzerata dal moltiplicarsi di altri e altri messaggi che strattonano lo sguardo che ha solo il tempo di una carezza distratta dei contorni. Dei pensieri. Del sentire. Strappati.
Strappo le immagini con un CLIC sul monitor, e frammenti di un volto, di un lavoro, di un luogo, si intersecano in nuove storie, cromie, suggestioni. I colori scomposti in primari, quasi una prova di stampa prima del via definitivo alla versione finale, che in video non c’è, è in continua possibilità del nuovo. CLIC. Il mouse come la macchina foto.
E ancora il puzzle si trasforma in altro, e c’è una strana tensione tra il mio sguardo e la mano, come quando si insegue un colore col pennello e senti la lotta tra il gesto e il pensiero che si placa solo quando non distingui l’uno dall’altro e ti perdi nello stupore del nuovo.
Ho il corpo immobile davanti al computer, sono le due di notte e ancora non mi schiodo: riordinavo immagini le più disparate e ancora non ho potuto resistere dall’aprire il file che strappa alla memoria del programma l’avvicendarsi delle mie e sue immagini.
STAMP-CLIC. Catturo e fermo ciò che l’occhio sceglie come definitivamente mio.
E archivio il nuovo file dopo averne goduto l’imprevedibile nascita o averlo modulato con piccoli tocchi del cursore ancora in altre note, rimandando all’infinito di spegnere lo schermo fino a domani. raffaella formenti, 21 febbraio 2005
about STAMPixel vedi anche
http://raffaella-formenti.blogspot.com/2008/12/maschera-teatro.html
STRAPPO. SCATTO. CLICCO. Riverso nel computer ondate d’immagini e le rimescolo a suon di mouse sul monitor, inseguendo imprevedibili combinazioni di frammenti che si intersecano con le scritte stesse di Photoshop. Respiro in zapping. Lo si fa ormai con i film, i libri, i pensieri, le persone. Momenti, come cocci di un insieme che non si arriva a leggere nella sua interezza, strattonati da sollecitazioni che si accavallano sovrapponendosi di prepotenza al semplice porre un passo appresso all’altro, senza una mèta, lasciando che oggetti e luoghi configurino con casualità il dove.
CLIC. Una foto archiviata che non risponde ai comandi. Esce una scritta che annuncia un guasto nel salvataggio. Un errore. Il codice binario è uscito di rotta e dallo sbaglio nasce l’imprevisto. E trovo. Forse ciò che cercavo. La chiave per unire i miei strumenti in dialogo: scrittura, fotografia e materia.
La mia attitudine sul lavoro ha sempre conservato il gesto quasi sospeso della scrittura, uno scrivere con le cose che si trasformano una con l’altra attraverso spostamenti minimi, quasi trattenuti, con un oscillare continuo tra il controllo totale della mente e il perdermi nel lasciar parlare la materia stessa. Lo stupore deve essere il mio per primo. Se ogni volta che lavoro sapessi già l’esatto risultato sarebbe la noia. Non reggo la ripetizione del fare, che porta a qualcosa che già conosco. Per chi segue il mio lavoro questa affermazione sembra quasi una bestemmia. Mi vedono da anni costruire pixel, piccoli origami che utilizzo come tessere di colore per le mie concrezioni, piegare carta con gesti che compio ormai a occhi chiusi, mentre girovago per la città ad ascoltarla correre. Eppure un’apparente ripetizione infinita mi tiene saldamente in pugno solo per l’infinita diversità possibile dell’utilizzo del materiale che si addensa di volta in volta in variabili combinatorie.
E ogni volantino piegato in pixel è una nuova scoperta di come andranno a combaciarsi i colori, studiati dal grafico per “imballare” il messaggio, e ora stravolti da una piegatura che ne costruisce un nuovo ritmo.
E l’illeggibilità. La parola torna colore e tace il messaggio esplicito, azzerata dal moltiplicarsi di altri e altri messaggi che strattonano lo sguardo che ha solo il tempo di una carezza distratta dei contorni. Dei pensieri. Del sentire. Strappati.
Strappo le immagini con un CLIC sul monitor, e frammenti di un volto, di un lavoro, di un luogo, si intersecano in nuove storie, cromie, suggestioni. I colori scomposti in primari, quasi una prova di stampa prima del via definitivo alla versione finale, che in video non c’è, è in continua possibilità del nuovo. CLIC. Il mouse come la macchina foto.
E ancora il puzzle si trasforma in altro, e c’è una strana tensione tra il mio sguardo e la mano, come quando si insegue un colore col pennello e senti la lotta tra il gesto e il pensiero che si placa solo quando non distingui l’uno dall’altro e ti perdi nello stupore del nuovo.
Ho il corpo immobile davanti al computer, sono le due di notte e ancora non mi schiodo: riordinavo immagini le più disparate e ancora non ho potuto resistere dall’aprire il file che strappa alla memoria del programma l’avvicendarsi delle mie e sue immagini.
STAMP-CLIC. Catturo e fermo ciò che l’occhio sceglie come definitivamente mio.
E archivio il nuovo file dopo averne goduto l’imprevedibile nascita o averlo modulato con piccoli tocchi del cursore ancora in altre note, rimandando all’infinito di spegnere lo schermo fino a domani. raffaella formenti, 21 febbraio 2005
about STAMPixel vedi anche
http://raffaella-formenti.blogspot.com/2008/12/maschera-teatro.html
> caro Claudio, non sono sparita di nuovo, ma sono giorni affastellati tra una mostra e l'altra.
Sabato ho esposto per la prima volta alcune delle immagini di nuova nascita ed hanno suscitato curiosità e interesse. Ma io non mi sentivo pronta e tutt'ora sono convinta che la natura di queste immagini per essere letta nel modo corretto debba trovare altro luogo di nascita. Altra luce. Mi sento limitata nella conoscenza di ciò che mi accade attorno nei nuovi linguaggi, e per questo non in grado, se non in una vaga intuizione, di supportare il mio file e i suoi strappi. Ciò che di particolare mi piace di queste immagini è che ribaltano il concetto di reale e virtuale, o almeno così mi sembra. Ricordo che all'ultimo anno di accademia mi arrovellavo sull'idea della falsa conoscenza così diffusa nel mondo dell'arte. Si presume di "conoscere" perché si è vista qualche riproduzione di quadri in quello che io chiamo “formato Fabbri”: la famosa enciclopedia d'arte che non riportava nemmeno le misure delle opere. "Conosco il tuo lavoro, ho visto un catalogo". Molto viene inventato nella propria mente come proiezione di un immaginario più o meno raffinato in grado o meno di avvicinarsi a quella che "dovrebbe" essere la reale natura di un'opera. Ricordo la prima volta che in Germania vidi dal vivo un'opera di Malevich. Capii di non "conoscere null'altro che ombre proiettate nella mia mente. Così cominciai a graffiare pellicole di diapositive scrivendo una sorta di diario segnico leggibile solo con la proiezione luminosa, e impossibile da riprodurre in cataloghi o altri luoghi di divulgazione che ne falsassero la natura. Le beghe in tipografia per un colore che non assomiglia alla foto del quadro....Che senso ha? Quando dipingevo ricordo le incazzature per un rosso mal riuscito in stampa...Ma già la foto era il primo orecchio di un lungo telefono senza fili, un passa parola che rende falso ciò che si conosce. Per quelle diapositive graffiate, (e per la mia mostra tascabile racchiusa in una scatoletta) quasi fui cacciata dal corso. Per arrivare al diploma feci la piega e portai i dieci lavori finali richiesti....Ma già non mi appartenevano più.
Con le mie concrezioni ho potuto litigare meno con i tipografi: il colore uguale non è così basilare, ma la questione è sempre rimasta in un angolo del mio cervello. Infatti quando studiai il mio primo catalogo nel '98 pubblicai una serie di piccole immagini tipo catalogo per corrispondenza, anziché immagini ben visibili, che dessero a chi leggeva la presunzione di dire " conosco il tuo lavoro". Poi i galleristi mi misero alle strette....
Ma ora il tarlo torna. Ho trovato delle immagini di luce, come le antiche diapositive, delle immagini che sono reali e veramente conoscibili nel regno del virtuale dove nascono. Se io invio via e.mail la foto di una mia concrezione, invio un'ombra, se io invio un'immagine nata direttamente dal computer, invio il reale di quell'opera, che diventa un'ombra falsa solo quando le cerco un qualsiasi altro supporto per esporla...Ma forse è giocoforza cercarlo, ed emularne l'aspetto estetico e cromatico con inchiostri e carte e tele e i supporti i più disparati. E ognuno di essi sarà l'ennesima ombra.
Ma nel più attuale e diffuso sistema di comunicazione di adesso le mie immagini saranno vere, senza false letture, senza mediazioni e traduzioni distorte. E questo mi piace. Poi non so ancora se è un gioco destinato a sgonfiarsi, o se veramente posso dire di aver trovato il modo di lavorare a quattro mani direttamente con il codice binario, seppur approfittando di una sua involontaria svista...
E' che finora le ombre su carta o su tela che ne ho ricavato non mi soddisfano. Travisano. Sviano. E hanno cromìe non mi appartiengono.
Mi sa che mi vado a infognare in un percorso economicamente insostenibile e assolutamente travisabile, finendo con stampare... copriletti e tende, anzichè dire ciò che vorrei! Ma nemmeno il lato decorativo-commerciale riuscirei a far fruttare...
Eppure concettualmente il file che strappa e si autocompleta continua ad avere in sé un grande potenziale, sono io tecnologicamente inadeguata per trarne il meglio e temo saranno i computer stessi ad impedirmi di proseguire oltre lungo questo percorso. Presto mi chiuderanno fuori dai loro errori di programmazione, riconducendomi forzatamente entro binari predeterminati, senza vie di "strappo".
Con le mie concrezioni ho potuto litigare meno con i tipografi: il colore uguale non è così basilare, ma la questione è sempre rimasta in un angolo del mio cervello. Infatti quando studiai il mio primo catalogo nel '98 pubblicai una serie di piccole immagini tipo catalogo per corrispondenza, anziché immagini ben visibili, che dessero a chi leggeva la presunzione di dire " conosco il tuo lavoro". Poi i galleristi mi misero alle strette....
Ma ora il tarlo torna. Ho trovato delle immagini di luce, come le antiche diapositive, delle immagini che sono reali e veramente conoscibili nel regno del virtuale dove nascono. Se io invio via e.mail la foto di una mia concrezione, invio un'ombra, se io invio un'immagine nata direttamente dal computer, invio il reale di quell'opera, che diventa un'ombra falsa solo quando le cerco un qualsiasi altro supporto per esporla...Ma forse è giocoforza cercarlo, ed emularne l'aspetto estetico e cromatico con inchiostri e carte e tele e i supporti i più disparati. E ognuno di essi sarà l'ennesima ombra.
Ma nel più attuale e diffuso sistema di comunicazione di adesso le mie immagini saranno vere, senza false letture, senza mediazioni e traduzioni distorte. E questo mi piace. Poi non so ancora se è un gioco destinato a sgonfiarsi, o se veramente posso dire di aver trovato il modo di lavorare a quattro mani direttamente con il codice binario, seppur approfittando di una sua involontaria svista...

Mi sa che mi vado a infognare in un percorso economicamente insostenibile e assolutamente travisabile, finendo con stampare... copriletti e tende, anzichè dire ciò che vorrei! Ma nemmeno il lato decorativo-commerciale riuscirei a far fruttare...
Eppure concettualmente il file che strappa e si autocompleta continua ad avere in sé un grande potenziale, sono io tecnologicamente inadeguata per trarne il meglio e temo saranno i computer stessi ad impedirmi di proseguire oltre lungo questo percorso. Presto mi chiuderanno fuori dai loro errori di programmazione, riconducendomi forzatamente entro binari predeterminati, senza vie di "strappo".