sabato 26 dicembre 2009

2013 Intervista - da Maria Paola Orlandini


2013 – Intervista scritta con Maria Paola Orlandini per il sito Le Buone Culturali


Domande:


La sua decisione di lavorare nel campo dell’arte: da dove nasce e con quali motivazioni?

Mi sento come il pittore preistorico tacitamente delegato/relegato in grotta dalla tribù a trasporre in segni propiziatori la quotidiana caccia di sopravvivenza, e sento che dalla buona caccia altrui dipende il mio nutrimento emotivo e culturale.

Nel “campo” dell’arte c’è un tempo di aratura, semina e raccolta ancora più imprevedibile e instabile di quanto non sia quello di un agricoltore, sottoposto ai capricci climatici che possono vanificare con gelate o siccità un intero raccolto. Anzi, ancor più, il raccolto nel campo dell’arte può anche non esserci mai, e per certo non ci sono indennizzi e sostegni europei...

Non ostante questo, penso che coltivare il proprio sentire e nutrirsi d’Arte resti per me indispensabile quanto il respiro. Ci si confronta e ci si abbevera alle opere e alla Storia dell’Arte, mentre si cerca una risposta ai propri perché e a quelli insiti nei linguaggi degli altri artisti, instaurando con loro un dialogo oltre ogni limite spazio-temporale. E si lavora non per rincorrere il nuovo ad ogni costo, o la “trovata” che faccia effetto, ma per “formattarsi” in una personale percezione e sguardo sulle cose.


> Tempo fa scrissi queste riflessioni in occasione di un dibattito, e mi piacerebbe riproporle:


”Scrivo due righe, sperando di non correre il rischio di finire chissà dove, in qualche pozzanghera a girare a vuoto senza trovare come uscirne e riempiendo l’aria di schizzi inconcludenti, anche se pur sempre d’artista…Per chi, e soprattutto perché, lavora un artista? Per esistere a se stesso, innanzi tutto, per scrivere da se stesso dei confini e prendere in essi forma, senza la quale non c’è leggibilità e comunicazione con l’altro da sé.

L’artista s’inventa delle simbologie a parte, un codice suo, una sua musica, qualcosa che dal suo sentire/riflettere/fare prende forma e inizia a esistere, in primis ai suoi occhi, e poi agli occhi di chi voglia ascoltare una nuova lingua o una modulazione delle precedenti con nuove parole. O con differenti silenzi.
La chiamano creazione, a me piace chiamarla alchimia.
Alchimia è quando una materia diviene altro e perde il nome che le dava confine, quello con cui la si era definita e ingabbiata in formula. Davanti a questa nuova “cosa”, deve ri-trovare la parola più adeguata per dirla, per nomarla, per normarla a regola di lettura.
Ma qualcosa che è totalmente definibile in parole perde in parte il senso della sua forma ed esperienza visiva, quella attivata con tanta fatica dal fare creativo che elide e moltiplica la superficie di ciò che conosciamo per amplificarne il senso.
Spesso a questo punto, a opera fatta, si toglie all’artista il ruolo di dio-adamo e lo si confina a costola intercambiabile di un sistema che ha costruito nel tempo precise gerarchie e normative.
Inizia così un lavoro di delega quasi in bianco, e a volte senza scampo, del proprio pensiero in mano ad altre persone che lo traducono al mondo.
Non me ne voglia quello Studioso e Critico d’arte che rappresenti in modo saporito e positivo uno dei poli di queste gerarchie, in origine il polo dei traduttori e traghettatori, ora sempre più travisati in detentori del Verbo che nomina e dà forma pure all’Artista, che da creatore diviene spesso solo un girabulloni alla Chaplin, intercambiabile a piacere come pedina di un altro gioco che non gli appartiene più, o a cui sceglie di appartenere in questi termini di “produttore”.
Solo con i giusti interlocutori, l’artista e l’opera tornano al centro e gli artisti possono esprimere la loro diretta traduzione, dato che sempre più spesso sanno usare il verbale oltre al visivo, e anche il pensiero, talvolta almeno... a volte è meglio non lo facciano. Spero non sia il mio caso.

L’artista è sempre grato a chi lo supporti e gli dia un luogo in cui prendere forma, in cui delineare il proprio sentire e la propria visione del mondo.
Ognuno può avere una storia da narrare, ma perché questa storia prenda forma per essere narrata e ascoltata da altri deve contenere un’urgenza in più, qualcosa che ci ossessioni, qualcosa per cui ti scappi di alzare la mano e prendere la parola anche se sei il più timido della Terra.
Per far questo è necessario ci sia il tempo della riflessione e la democrazia dell’ascolto, che si sia liberi di alzare la mano, e che esista uno spazio, un teatro, un libro, una galleria, un monitor, un marciapiede in cui esprimersi, spazi più autentici attraverso cui incontrare e scambiare Cultura. E quando dico teatro intendo un luogo amplificante, un luogo e un supporto in cui avvenga uno scambio. Scambio che sempre più raramente avviene nel mondo dell’arte, anche nelle Gallerie stesse, tese più al business del mercato che all’ascolto della Ricerca, la quale ha un’antica storia da cenerentola marginale, per pochi, o almeno così era quando l’opera era al centro del dibattito e della ricerca, e non solo pretesto per salotti o misurazione di potere sociale.
Ora c’è anche il palcoscenico della Rete, il massimo apparente di libertà, ma ogni brusio troppo intenso, che divenga rumore reiterato, tende a spegnere la nostra soglia di attenzione. “Il troppo stroppia”, diceva una volta la saggezza contadina.
Anche se è corroborante che ci sia una tracimante scelta di voci, a volte il sussurrato è più dialogante: poter scegliere individualmente i tempi e i modi della fruizione, senza rincorse e pressioni, compresi i pop up che ti si aprono mentre stai leggendo sul monitor, o la pubblicità che sbuca da ogni dove a distoglierci da una riflessione personale di ciò che i nostri sensi vivono. Vista la sua eccessiva ingerenza, è proprio quest’ultima che catturo e ribalto in colore e le faccio dire altro con il mio lavoro.” <

Il suo lavoro: un piacere personale o anche una responsabilità civile?

Sono convinta di una cosa: quando si è profondamente e autenticamente egocentrici, quando si indaga in se stessi come unico frammento di microcosmo a propria totale disposizione, cartina al tornasole di una vastità meno facilmente sondabile, quando lo si voglia fare con autenticità, si è sempre in dialogo costruttivo anche con gli altri e con la società intorno, e quindi il proprio agire è di per sé impegno sociale. Sempre, beninteso, che questa indagine non sia un puro esercizio ombelicale o di mera gratificazione per le proprie nevrosi, ma un raffrontarsi dialogante tra sé e i linguaggi artistici, antropologici e culturali di cui siamo sedimentati.

L’Arte ti traversa senza chiederti il permesso e si appropria del tuo fare, che tu lo voglia o no, e di solito le cose migliori nascono quando si perdono per un attimo le griglie di riferimento e il progetto puramente razionale, e si lascia uno spiraglio a che in esso si inserisca il caso e il respiro dei luoghi. Questo l’ho sperimentato proprio poche settimane fa, nell’ultima mostra in cui mi sono trovata coinvolta. Avevo progettato a tavolino, in base alle foto dello spazio espositivo, un intervento su di una colonna. Al momento di montare scopro che lo spazio non era più lo stesso e la colonna non era disponibile; dopo un tonfo interno da spaesamento e un’arrabbiatura trattenuta e domata, ho lasciato che tutti i lavori degli altri artisti venissero posizionati a parete e mi sono messa in ascolto del luogo e di ciò che mi poteva offrire nella sua nuova identità. Sono stata male fino all’ultimo, con una tensione, direi quasi terrore, di non riuscire a far nascere il lavoro. Poi, man mano che posizionavo il materiale preparato, lasciandomi anche guidare dallo stesso, l’installazione ha trovato il suo respiro, il suo equilibrio concettuale, spaziale e, cosa che non guasta mai, anche cromatico. Venendo dalla pittura non riesco a prescindere da un’armonia anche pittorica nei miei lavori. Spesso è un di più rispetto al concetto su cui sto concentrando l’agire, ma penso che l’armonia espressiva del colore sia anche forza attrattiva per innescare il dialogo con chi si avvicina alle mie esperienze visuali.


Lo scultore Nunzio una volta mi ha detto: “Per un artista la difficoltà non sta tanto nel fare, quanto nel mettersi nelle condizioni di fare”. Questa affermazione forse è tanto più vera per una donna. Cosa ne pensa?

Arginare la quotidianità che frammenta il pensiero e lo vanifica in reiterazione del già noto, questa è la grande battaglia. Se ogni giorno c’è solo il tempo di fare quattro bracciate e non le dieci vasche necessarie, difficile avere il fiato per immergersi dove non si è ancora stati. Ormai si potrebbe passare dalla culla alla tomba solo lasciando che la quotidianità spiccia ti riempia ogni momento della vita, sia essa rappresentata dal piacere degli affetti o da fastidiose burocrazie, da rituali sociali o impicci di salute. Resta ancora e sempre basilare la famosa “stanza per sé”, di cui parlava Virginia Wolf. Una porta, fisica o mentale, invalicabile per gli altri, compresi i sensi di colpa. Sicuramente la disponibilità del tempo femminile al servizio degli altri, su cui ancora regge l’equilibrio sempre più deteriorato della società italiana, rappresenta una delle sabbie mobili in cui si rischia di restare inghiottite, insieme al fardello più o meno cospicuo di sensi di colpa, di cui si viene rifornite fin da piccole, se per caso ci si discosta dal ruolo di cura all inclusive, comprensivo del supporto agli obiettivi altrui calpestando i nostri: quello che io chiamo”smarrirsi per accompagnare gli amici a casa”. Anche da ragazzi si faceva, ci si accompagnava più volte a vicenda, poi era sempre il più gregario dei due a rientrare a casa da solo...


Oltre agli ostacoli personali, ci sono altre barriere da superare? La burocrazia? La mancanza di fondi? La diffidenza dei galleristi? Qualche esempio

Il miglior esempio è il mio starmene fuori dalle caselle della tombolata: mi ci vuole talmente tanta energia per seguire le procedure dettate dal gioco, e lo avverto ormai così sfalsato rispetto ai significati quasi alchemici che attribuisco all’Arte, che tendo a star seduta sulla riva del fiume. Forse per la recidiva ingenuità che sia la qualità a trovare e segnare la strada, senza che io ci investa il fiato che non ho. Ho la testa tutt’uno con le emozioni e, purtroppo o per fortuna, ho dimenticato di erigere compartimenti stagni per isolare spazi dediti a burocrazie, giochi di ruolo, strategie... Di sicuro il mio carattere non mi agevola ed è il mio ostacolo principale. Ho intrapreso gli studi a Brera a trent’anni, prima lavoravo e dipingevo da autodidatta, ma mi urgeva nutrirmi di altro. Avevo già due figlie, così quando ancora mi sentivo dire dai galleristi la solita tiritera:”Poi voi donne lasciate e mettete su famiglia...”, io rispondevo:”Già fatto, e ormai sono autonome”. Non è mai vero del tutto, anzi, sono io la prima non totalmente autonoma dagli affetti... ma credo non lo siano nemmeno gli uomini artisti, anzi!... Con la differenza però che nel loro caso sono gli affetti e i galleristi a piegarsi ai loro tempi ed umori...


Ha mai pensato di mollare? E perché non l’ha fatto?

Lo penso ad ogni risveglio, se devo esser sincera. E ancor più quando il cane del vicino inizia a guaire alle sei di mattino. Essendo io una nottambula, riesco a riappacificarmi con la vita e con me stessa solo verso sera, e il mattino dopo ricomincio daccapo a dovermi convincere che vale il viaggio questa ossessione che mi accompagna da sempre, questo moltiplicare la superficie del reale con altre riflessioni e pieghe imperscrutabili, anche se apparentemente giocose. Cessare di indagare linguaggi e materiali è cessare di respirare. Coinciderebbe. Ho sperimentato in varie occasioni alcune sgradevoli crisi di “astinenza”, in cui coinvolgo sotto la nuvola nera anche chi mi vive accanto. Impossibile smettere, posso ridurre la dose di progetti attuati, ma qualche piega al giorno, qualche scarabocchio, qualche scatto fotografico non posso evitarmeli. Ho la fortuna di giocare su più registri espressivi, e quando non ho lassi temporali abbastanza vasti che mi permettano di nuotare al largo in acque sconosciute, bordeggio ripercorrendo con nuovi interrogativi ciò che mi capita a portata di mano.


Si possono rinvenire degli elementi comuni tra le vicende delle donne impegnate nel campo artistico? O ciascuna costituisce un caso a sé, un’individualità, come è caratteristico oggi, di tutta l’arte contemporanea, non più organizzata per correnti o movimenti?

Ho sempre avvertito un triplo muro da sfondare, un triplo esame da superare, una tripla sfida da reggere, ma credo che sia così in tutte le professioni. E come in tutte le professioni, é divenuta necessaria una specificità tale nell’approfondimento del proprio linguaggio, che è quasi naturale divenire monadi solitarie, concentrate sul proprio chiodo fisso.

Movimenti e correnti hanno perso motivazione d’esserci (se non per forzare con un grimaldello da banda il Mercato, usando la formula “l’unione fa la forza” e fa più rumore...), e tentare d’ingabbiare i percorsi in sottogruppi affini è agire con un ottuso bisogno di incasellare, perdendo l’intrigarsi nella scoperta delle singole specificità di ricerca. Sicuramente ogni artista donna ha avvertito sulla propria pelle la difficoltà dello “specchiarsi” nella Storia dell’Arte, nelle cui pagine ha presenza ancor meno che marginale. Questo può mettere a dura prova il proprio equilibrio e il sentirsi in diritto di essere parte in causa. Ci sono ancora artisti che sostengono che l’Arte è la sublimazione della loro “impotenza a partorire”, e che quindi è impossibile che la donna ne sappia percorrere appieno la ricerca, in quanto già preposta a generare vita. Io ho due figlie, e questo non mi ha precluso di vivere intensamente quei meravigliosi trip euforici d’estasi creatrice di cui “loro” narrano, (magari tra una modella e l’altra), quando sei tu stessa la prima a stupirti di ciò che sta nascendoti tra le mani, davanti ai tuoi occhi, al di là di ogni progetto, di ogni volontà e di ogni apprendimento tecnico: quando scatta quel quid imponderabile che ti fa sentire la vibrazione dell’autonomia dell’Arte rispetto a ciò che sei tu, nella tua finitezza di persona.


Pensa che ci sia una qualche specificità, una qualche “innata” vocazione di genere, che le donne esprimono nella fase di ideazione e di produzione artistica?

Sono stata sempre refrattaria e quasi allergica alla lettura di genere, ed è forse come stare ancora a disquisire sul sesso degli angeli. L’Arte travalica, quando è autentica contiene in sé il maschile e il femminile. Quello che purtroppo resta chiaro è che se è un uomo a ricamare una lacrima sul viso di una diva è un Artista, se lo fa una donna... Se è un uomo a piegare i Topolino è un Artista, se lo fa una donna.... Anni fa, molto prima delle lacrime da diva del Famoso pupillo di Prada, c’era un’artista, anch’essa bresciana, che ricamava a punto croce membri maschili. Era un’operazione molto forte e coerente con le sue precedenti ricerche, ma una donna che ricama appare quasi banale... può anche urlare il suo spessore culturale che tanto non otterrà la stessa attenzione data qualche anno dopo al ricamo al maschile.


Esiste tra le donne una più marcata competizione?

Probabilmente sì, ma come in tutti gli ambiti suppongo, dovendo, in quanto donne, raddoppiare gli spintoni per adeguarsi a competere secondo i canoni in voga, ma solo perché ancora non si è riusciti a rafforzare una diversa modalità e un’altra scala di valori.

Questo sgomitare avviene quando il fine competitivo sono le luci della ribalta, forse avviene meno quando è la ricerca al centro del proprio misurarsi, anzitutto con se stessi. Sono così idealista che credo ancora che l’Arte sia un percorso di conoscenza e non una battaglia per chi arriva primo. Primo rispetto a cosa, primo rispetto a chi? E ormai anche primo dove, su questo globo con sempre nuove chiese inventate ad hoc: gli artisti divengono loro stessi merce da scaffale, in attesa del tocco magico di un critico, di un mercante, di galleristi global... manca solo la quotazione in Borsa... O l’estrazione al lotto: giocare sulla ruota di Shanghai o su quella di Dubai?... Per me ha ancora senso avere stima e spazi di sostegno e confronto con poche persone che credano nella mia autenticità, ma anche questo è un terno al lotto...


Abbiamo lanciato l’ipotesi della formazione di una lobby – termine scelto provocatoriamente – femminile della cultura, che rovesci, insieme alla lateralità delle donne, anche quella dei beni culturali. Cosa ne pensa? Il ruolo attivo delle donne potrebbe scardinare pregiudizi e convenzionalità?

Ho incontrato sul mio cammino solo poco tempo fa un gruppo di filosofe le cui riflessioni credo valgano la nostra attenzione. Tra queste campeggia Annarosa Buttarelli, docente di Filosofia a Verona, che ha appena dato alle stampe “Sovrane”, in cui riflette su quali possano essere le peculiarità positive del regnare al femminile, a cui guardare per uscire dall’impasse attuale della politica e della poca considerazione data all’Arte e alla Cultura. Buttarelli è anche una degli intellettuali “colpevoli” di aver dato il via anni fa all’ormai famoso Festival della Letteratura di Mantova, e l’ideatrice, insieme ad un amico artista, Lucio Pozzi, di una serie di brevi atti unici d’arte, gli Eventi MAT/tam, eventi che durano esattamente due ore, ogni volta in luoghi diversi e non necessariamente preposti all’arte, e in cui l’artista invitato si pone in dialogo con i presenti che gli rendono visita e a cui presenta se stesso e la propria ricerca. Mi sono trovata coinvolta in prima persona ed è stato molto diverso da ciò che si prova quando si inaugura una Personale: lo ricordo come un concentrato d’incontro umano e di reciproca curiosità, di volontà di dialogo, pur se in assenza totale di buffet e vini... punto aggregante e spesso unico motivo di frequentazione delle Vernici! Io non sono mai stata frequentatrice di luoghi per sole adepte. Credo sia più autentico il confronto vis à vis con tutte le peculiarità dei generi in campo che, a ben vedere, non sono solo due. Credo che, anziché un nuovo iter fondativo, possa essere interessante sondare i percorsi carsici nascosti qua e là nelle singole realtà cittadine, come le riflessioni ormai decennali del gruppo Diotima, di cui ho letto di recente “Il pensiero dell’esperienza”, che riunisce le testimonianze di diverse intellettuali, italiane e non.


Una proposta concreta per mettere al primo posto della coscienza e dell’agenda politica del paese la cultura.

Non ho soluzioni… Non saprei… Anche fosse solo lo smettere di pensare che si debba abbassare ciò che è elevato e faticoso da raggiungere, che solo trasformando i musei e le città in parco d’intrattenimenti si possa arrivare al pubblico. Piuttosto far sì che i Musei divengano una chiesa laica attiva nel quotidiano della gente, un luogo aggregante in cui vivere la propria città, ormai svuotata dalla frequentazione assidua di ben altra chiesa, il Sacro Centro Comerciale e le sue cappelle con sfavillanti attrattive di consumo. I musei troppo sterilizzati o sviliti in farsa non pulsano futuro e nuove riflessioni. Se almeno i residenti avessero un più agevolato uso delle strutture della propria città, sarebbe già lievito di contaminazione in più e partendo dal territorio e non da carte, timbri e direttive.

Mi ha colpito (non so se sia ancora così, ma fino a qualche anno fa lo era) constatare che in Austria viene dato l’accesso gratuito ai musei e ai teatri ai meno abbienti, considerando la Cultura importante nutrimento quanto il pane. Forse sarebbero completamente da ribaltare i riferimenti con cui si calcola il PIL, e sarebbe il momento di rimettere al centro il benessere dell’Uomo non solo nella sua accezione materiale e consumistica. Anche se la vedo complessa... Siamo in un Paese in cui si cancella l’insegnamento della Musica e della Storia dell’Arte nelle scuole, anziché farne il perno, considerando l’unicità mondiale del nostro patrimonio culturale. Arte e Musica sono ancora ritenuti solo una perdita di tempo...o alla peggio uno status symbol da esibire... Mi sento chiedere: ok, sei artista, ma che lavoro fai? In Italia ci sentiamo tutti artisti, guai ad avere la presunzione di voler vivere respirando l’Arte nascosta ovunque, nutrirsene con gusto e non con noia. E tanto meno come giostra per comitive annoiate, com’è avvenuto a suon di Impressionisti a Brescia. Avevo i pullman fin sotto casa, ma una volta sbaraccato il “circo Goldin”, la città si è trovata solo con le Casse totalmente spazzolate... Credo comunque che sia il tempo anche della navigazione virtuale, e in essa chi veramente vuole può trovare input mirati per costruirsi un cammino di conoscenza, un tempo inimmaginabili. Forse abbiamo perso il “privilegio del contadino” che, passando una vita su di un fazzoletto circoscritto di quotidianità rituali, poteva alla fine dei suoi giorni dedurre sagge certezze dalle sue esperienze, ma alle certezze l’artista rinuncia già a priori, come al pensare che le soluzioni, ammesso che ci siano, vengano dalle Stanze dei Bottoni.