martedì 30 dicembre 2008

quando lo sguardo cattura e strappa

L’affollarsi che annulla reclama un luogo senza rumori visivi,un punto da cui dipanare il proprio racconto,uno schermo bianco su cui focalizzare una risposta di ascolto.
QUANDO LO SGUARDO CATTURA E STRAPPA
ciò che più conta è contaminare lo sguardo ad attardarsi sul marginale e renderlo così protagonista di un nuovo racconto…

...Mi è capitato di vivere il dietro le quinte di luoghi quali gli Ipermercati, e camminare a lungo per le Metropoli in corsa.
Ho seguito l’urgenza di accogliere nel mio lavoro il colore stesso della “pelle cartacea” che imballa il nostro quotidiano incedere.
Un calcio ad una scatola vuota, che ha terminato il suo ciclo di contenitore protettivo e accattivante all’acquisto, e questa scatola entra nel vivo di una sua nuova storia, insieme ad altri frammenti colorati che rimanipolo in un mosaico senza pareti.
E di oggetti cartacei mi nutro, e con essi cerco di dire cose attinenti all’oggi. E più la gente consuma, processo che non sono certo io a poter rallentare, più posso ossigenare il mio alfabeto di nuovi colori… Quelli stessi che solluccherano i desideri del compratore, slogans e frasi martellanti comprese, permettono poi a me di aver tinte sempre nuove per un ennesimo strappo di presente in cui, come un germinante corpo in crescita, un frammento chiama l’altro e la colla cattura le parole in una nuova storia.

Io amo strappare.
Strappare affreschi quotidiani. Parole. Immagini. Materiali. Luoghi.
Sovrapporli: affastellarli, o al contrario liberarli da ogni rumore che ne impedisca la “lettura”.

Solitamente strappo strisciate di “reale” con lunghi scotch lungo le strade tappezzate di colore. Strappo lunghi rotoli di parole facendo zapping tra i programmi televisivi e riscrivendone il passaggio come un amanuense in corsa.
Strappo scatole e carta alle cose da buttare e le sovrappongo a se stesse in un nuovo racconto.Ma strappo anche immagini nel mio vagabondare lungo il teatro umano e le scelgo a rappresentare il mio sentire.
Mi piace immaginare il ruolo dell’artista come colui che non cessa un istante di tenere il dito puntato sulla forma variante delle nuvole, invariabile presenza che ha trascorso le epoche.


Nessuna presunzione di aver la formula del “nuovo”, quanto piuttosto un ruolo di marker fluorescente, pensando i luoghi come immense pagine di appunti da cui estrapolare un dato significativo per la scrittura di “pagine” successive.
Non esiste il senso lineare del progresso in arte. Esiste la capacità o meno di trattenere in un’immagine la continuità di respiro del pensiero umano. Come traccia. Come tensione. Come semplice segno di scelta.

sabato 27 dicembre 2008

fessure

Cado distratta in un’occhiata di fessura dentro gli scavi celati da una staccionata di pubblicità. Una voragine come di gengiva scavata denuda gli strati di casa cadente. Un dente divelto, estirpato, e al suo posto un nuovo palazzo di specchi e formiche, tra carte e computers. Domani. Lo dice il cartello che loca. Elogia i vantaggi d’acquisto di un dente di smalto laccato, garanzia di sorriso. E sorrido. Di tutta una via, di scritte e prodotti, ho cercato con gli occhi soltanto qualcosa che apra la vista su ciò che non c’è. E tra queste parole. rf 1991


didascalia immagine
FILE TEMPORANEO - 2001
Inserto pubblicitario in feritoia medievale

MASCHERA + TEATRO...






Il teatro è il luogo della messa in scena delle parole che trasformano e reinventano il reale. Dagli antichi affabulatori di strada ai più raffinati monologhi contemporanei, con la parola sono stati inventati luoghi e personaggi virtuali realmente protagonisti di una vita nello spazio temporale e fisico di una rappresentazione.
La maschera, presente con differenti significati trasversalmente in ogni cultura e in ogni epoca, nel teatro contemporaneo è rapprentazione virtuale simboleggiata da un segno, un gesto, un dire, un elemento di scena che permetta di calare attore e pubblico nella finzione dei personaggi e dei luoghi di ciò che di volta in volta si va proponendo.
Maschera è una luce, che esalta o nasconde; maschera è un inflessione particolare nel parlato, che dà precisi riferimenti atti a disegnare il personaggio e l’epoca; maschera è l’accentuazione del trucco sul volto, che sottolinea il carattere, o la cancellazione in bianco per il pirandelliano uno nessuno centomila che riveste tutt’ora il ridefinirsi continuo dell’uomo contemporaneo, il quale ha uno strumento in più per mascherarsi e reinventarsi a se stesso: il WEB.
I diari di un tempo sono usciti dai cassetti e ci si racconta in rete ad una platea di ombre senza contorni, e la parola delinea i tratti della propria maschera, scelta e costruita a propria reinvenzione, per vite parallele in un caleidoscopico gioco alla Pessoa. Raccontarsi differenti da sé in CHAT o in un BLOG, per un evasione dal proprio volto quotidiano: il WEB è il nuovo palcoscenico virtuale in cui ognuno “si” recita reinventandosi.

Nel mio lavoro indago con l’atteggiamento dello strappo, l’appropriazione indebita di frammenti di ciò che vedo e tocco, nei luoghi della comunicazione e delle parole, ricostruendo concrezioni e improbabili marchingegni che diano un rivestimento tangibile seppur immaginario al mondo tecnologico, con cui l’uomo ha aperto nuove e interessanti vie al comunicare.
.
Un invito a lavorare sull’idea della maschera e il teatro ha creato in me come prima reazione un approccio d’indagine nei motori di ricerca in rete: maschera+teatro, ricerca per immagini.
Solo la parola maschera apre a molte letture: maschere antigas, maschere di bellezza, prodotti per mascherature per l’industria,….
Catturo dalla rete alcune immagini di maschere, e le sottopongo allo strappo del mio file catalizzatore, che le “maschera” nell’affastellamento di un surplus d’informazione.




Maschera+Teatro, estraggo informazioni dalla rete e ne faccio intreccio di ombre non approfondibili per eccesso di imput. Il tutto diviene intreccio di cromìe in cui s’intravede, dietro la maschera allettante del colore, solo la superficie di un tema vasto e multiforme.




Ma la mia idea di maschera da sempre è la parola, con la quale ci mostriamo o celiamo agli altri, costruendo il nostro esserci sul palcoscenico quotidiano. E la comunicazione virtuale è la nuova maschera contemporanea per reiventarsi e recitarsi nei differenti ruoli. L’opera "BLOG" nasce un po' da questa riflessione sull’ effetto CHAT e sulla moda dei BLOG, i luoghi del raccontarsi virtuale che permettono di mascherarsi di parole.





Mi sono immaginata un BLOG dandogli una forma, come una nebulizzata di colore sull’uomo invisibile che ne faccia percepire la presenza.
In mostra ci sarà questo duplice aspetto dell’idea di maschera: la maschera come superficie della conoscenza celata, nelle immagini STAMPixel che proporrò in monitor e a parete, e la reivenzione in concrezioni cartacee tridimensionali dell’atto dell’uomo del mascherarsi in virtuali coordinate di sé e nella ridondanza di parole.



ARTEATRO - 2005
Livorno, Teatro delle Commedie


about STAMPixel vedi anche
http://raffaella-formenti.blogspot.com/2011/04/strappi-monitor-2005.html

venerdì 26 dicembre 2008

1999 - papiri libranti




A continuità di un percorso intrecciato al luogo fisico delle Librerie, mi ritrovo ancora PERSA IN PAROLA tra i libri: un turbinio di segni tipografici che rompe lo scorrere lineare del tempo creando luogo d’incontro con duemila anni e oltre di pensiero.
Infiniti papiri senza svolgimento si librano in libreria
A contrappunto stanno Le SCOLLATURE, piccoli libretti in cui catturo diligenti e aggiornanti appunti settimanali in colore di sussurro indecifrabile.
Scorro con il pennello intriso di colla come uno sguardo di lettura rapida e trasversale sulla pagina stampata dei settimanali. Ne spremo il succo su di un foglio: lo carezzo e strappo. Pittura murale d’affresco. A giornate. Le parole transitive usa e getta lasciano così un segno senza suono. Un’ombra di parole che dicono…. e si è già lontani per sentir cosa.
E su quest’ombra lo sguardo inciampa in mozze frasi a strappo senza specchio.
Senza figure, didascalie, note e commenti. Senza pubblicità che paghi.
I costi di altre pagine parlanti.


mostra PAPIRI LIBRANTI della serie "PERSA IN PAROLA"
Prato, 1999, Libreria Soprattutto Libri


due passi in Biennale - 2005

Passi nel fresco, in una Biennale che apre all’insegna dell’ascolto possibile.
LA PERCEZIONE RICHIEDE IMPEGNO”, questa è la grande scritta che campeggia sulla facciata del Padiglione spagnolo, e pare che questo monito-invito a dedicare più tempo alla lettura delle cose sia condiviso anche dalla doppia curatela spagnola, Maria de Coral e Rosa Martinez, in una Biennale di respiro quasi museale, senza picchi emozionali né grandi folgorazioni, ma che ha il pregio di riportare il singolo artista e la sua opera a soggetto dell’evento. In quasi tutti i Padiglioni gli artisti, in numero più contenuto delle precedenti edizioni, sono presenti con più opere, cosa che permette una maggiore comprensione del percorso e della poetica di ciascuno: non solo parole sparse, ma frasi compiute con cui porsi in dialogo costruttivo. Ancora una volta forse troppi video per riuscire a guardarli, in un contesto di poliedriche sollecitazioni quale la Biennale, che ormai coinvolge tutta Venezia, dentro e fuori le sedi istituzionali, e richiederebbe più giornate a disposizione.
Una lunga coda per accedere alla visione del video della Favaretto, un biancoenero di sapore felliniano (video vincitore del Premio giovane arte italiana), diviene esperienza diretta di ciò che poco prima ho trovato proposto in alcune foto di Muntadas, un’ indagine sull’attesa, che in questo caso mi rende più critica quando arrivo alla scatola di proiezione. Lo stesso mi accade al Casinò Francia (Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale) dopo la lunga coda per Annette Messager che, pur tifando per la presenza di donne nei luoghi istituzionali dell’arte, ricordo con maggior forza e minor marchingegno favolistico in altre sue installazioni. Di una donna lo smantellamento di un cubo razionalista per farne paesaggio, con tutto il contorno di ambiguità sul “work in progress” in atto in giorni in cui gli ultimi preparativi per la kermesse non permettono di distinguere imbianchini in ritardo sui tempi di allestimento da operai addetti a mettere in scena l’opera della Bonvicini. La sonorità dei trapani diviene colonna sonora dei miei passi tra un Padiglione e l’altro, nell’interno dei quali a volte altre sonorità isolano in nuove percezioni, come le biglie d’acciaio smosse dai passi in Cecoslovacchia, il pavimento di bottiglie nel Belgio, un marchingegno a sensori in Brasile… L’opera interattiva è il lato parco-giochi, spesso presente in queste manifestazioni, che più fa discutere i puristi, ma da cui trovo piacevole lasciarsi titillare per scardinare la corazza raziocinante e impegnata in favore di Alice e di quel tanto di “inutilmente” alchemico che è uno degli aspetti nutritivi dell’arte. Anche se poi ciò che mi resta a pelle è la gestualità narrante dei sordomuti nel video della danese Eva Koch, o l’applauso-rito indagato da Muntadas, o la forza pittorica sempre coinvolgente dei quadri di Tapies e di Bacon.
Per la prima volta anche l’Arsenale è percorribile senza quel senso di sovraffollamento che ha sempre contraddistinto questo spazio più “sperimentale”, in reltà ora troppo zittito e ben confezionato anche in quei lavori che avrebbero voluto forse far discutere.
Mentre mi allontano mi insegue l’enumerazione dei Paesi non presenti alla Biennale, e i martellamenti di cifre e dati che reggono il grande Evento, per voce di un altro spagnolo, Santiago Sierra. Seguo mentalmente i passi della nudità di denuncia della guatemalteca Regina José Galindo (Leone d’oro Under 35) per le calli veneziane e catturo in una foto una piccola contaminazione: non la tecnologia faraonica della scultura di Plessi, ma la borsina gadget “sacco di cultura” di un polo museale austriaco, che accompagna i passi di tutti i presenti. Altri passi, quelli negli esperimenti di navigazione dell’ungherese Balázs Kicsiny, restano forse l’immagine più forte a simbolo di quanto l’indagine sull’arte, per seguire i binari del mercato, rinunci al coraggio dell’eversione racchiusa in gesti di autenticità artistica non necessariamente urlanti e provocatori. E la scritta dell’americana Barbara Kruger ( Leone d’oro alla carriera), ce lo sottolinea a lettere cubitali dalla facciata del Padiglione (ex) Italia: “Passi alla storia quando fai affari”. r. formenti

Rivista STILE ARTE, luglio, agosto 2005

2007 - DERIVA -

Presentazione del DARDO D'ACQUA scelto come Trofeo Regata dalla Fraglia Vela di Desenzano

DERIVA. titolo insolito per una mostra d’arte che nulla sembra avere a che fare con il mondo vero e proprio della Vela, se non fosse perchè a settembre un’opera dell’artista Raffaella Formenti, un suo “Dardo d’acqua”, è stato scelto dalla Fraglia Vela di Desenzano come Trofeo per la regata conclusiva del Circuito Eni-Vodafone 2007, Le Grandi Classiche del Garda.
Il Dardo nasce in occasione di un altro momento di contaminazione con il mondo della navigazione, una mostra “Le bois, les bateaux et l’art” organizzata dalla Riva Motoscafi nel 2001 nelle Salles des Expositions di Monaco, a cui Formenti fu invitata a partecipare. Nel suo lavoro molto particolare esiste un concetto di “navigazione” non legato all’acqua, ma bensì al “mare d’informazioni” che come un’onda ci sommerge ad ogni passo della nostra quotidianità.
Davanti alle sue opere non si può che lasciare andare lo sguardo alla deriva, facendosi via via condurre dagli stralci di parole, di frammento in frammento. Ognuno vi trova una parola, un’immagine che altri nemmeno notano, e il percorso nel labirinto si fa individuale, così come lo sono le suggestioni di una navigazione in fil di vento senza pòrsi in anticipo un obiettivo da raggiungere, ma lasciando che siano le attrattive del luogo a condurci, come canto di Sirene verso un momento di pausa. Anche queste recenti opere esposte nella mostra “Deriva” sono come sirene, in questo caso non i personaggi mitologici ma improbabili marchingegni-allarme che ci segnalano come anche le frecce, che sembrano indicare una rotta ben precisa, spesso sono instabili e contradditorie, sospese a motivi incerti, piene di dubbi, troppo spesso fuoriuscenti da un magma di indecisioni, nate dal “troppo di tutto” che mette a tacere sotto un rumore continuo i nostri sogni più personali e segreti. CdS

Brevi note sull’artista
Nel 1992 nasce la prima “Torre informatica”, nel 1997 l’artista partecipa alla mostra “TRASH: quando i rifiuti diventano arte” al MART di Rovereto a cura di Lea Vergine, ancora nel 1996/97 prende parte ad “Escatologica”, allestita in varie sedi a cura di Roberto Peccolo, negli anni 2000-2001 partecipa al progetto “Doppio Triangolo” e viene scelta per rappresentare l’Italia in una serie di mostre in Slovacchia, Italia, Svizzera. Invitata da Martina Corgnati al III Premio Internazionale di Scultura Regione Piemonte, è segnalata tra i dieci finalisti, con il progetto “Regard d’ailleurs”. In questo periodo propone improbabili motori di ricerca del lavoro con il titolo “www.travagliare.com”, sito virtuale in rete e sito reale in occasione della mostra “030, arte da brescia”, curata da F. Paris e F. Tedeschi nel 2003. Fa parte di numerose esposizioni, fra le quali “Pleinair 2004” a Darmstadt (Germania), “Segnali inquieti” alla Galleria Peccolo, Livorno.
Presenze con Personali in spazi pubblici quali la recente “Zig Zag tra Bus e Spam” a Palazzo Libera di Villa Lagarina, a cura di Promart, presenze in mostre quali “Tuttolibri”, curata da Lea Vergine alla Galleria Milano, “Alfabeti” allo Spaziotemporaneo a Milano, e in Collezioni quali l’Archivio Nuova Scrittura al MART di Rovereto, confermano l’opera significativa di Raffaella Formenti, una instancabile osservatrice con occhio ironico, ma soprattutto di grande sensibilità poetica, quasi neodadaista.

1999 - Telefonata in codice di ascolto

idea appena lambita in occasione di una mostra in Germania.
(Galleria Rottloff, Karlsruhe - 1999)

" una telefonata in codice di ascolto" .
I cellulari imperversano e ci ritroviamo nostro malgrado a catturare frasi, chiacchiere, parole, confidenze, imprecazioni....senza poter ascoltare entrambe gli interlocutori. Strappiamo parole sospese, e con la fantasia ricostruiamo le frasi di risposta.
Dalle parole prima e dopo il silenzio d'ascolto cerchiamo d'intuire a modo nostro l'intrecciarsi dell'evento.
> dove vado a parare? Mi arrampico sui muri! Infatti in quella mostra ho disseminato concrezioni ( i miei oggetti inglobanti in cui finisce incollato un po' di ogni con risoluzione formale di volta in volta diversa) dando ad ognuno come titolo la frase di una conversazione telefonica e sottolineando nell'allegato che distribuivo che "L'UNICO TITOLO DI OGNI OPERA E' QUELLO SCRITTO TRA LE RIGHE DEL PROPRIO ASCOLTO" in quanto ritengo che queste mie concrezioni siano da ascoltare con lo stesso orecchio indiscreto con cui ci si sbizzarrisce a completare le telefonate altrui casualmente "rubate".

> lavori in carta ed “ossa” esposti, ma con l’attenzione spostata al problema del titolo, casella informativa ? delimitante ? sviante ? didattica ? amena? filosofica? citante?enumerante?…..E le mille tracce attorno a cui si sono mossi gli artisti nel denominare i loro “pargoli”( qualcuno ha mai analizzato correnti e mode nell’apporre i titoli?
La mia prima mostra era di “pastelli”: serie “farina di grano tenero 00”.
Ad ogni pastello corrispondeva uno stralcio tratto da una scatola di biscotti che enumerava gli ingredienti, le dosi, e la conservazione. (indirettamente c’entravano già le scatole…).
Ero contraria a dare motivazioni, enumerazioni, o riferimenti di qualsiasi genere titolando i frammenti di colore, e così seguendo il detto”siamo ciò che mangiamo” avevo scelto di enumerare gli ingredienti dei miei alimenti. Chiusa parentesi.

Ora potrei dire di ispirarmi, tra virgolette, a qualcosa del tipo “siamo i bla-bla che non ascoltiamo” perché il nostro pensiero individuale trova respiro e concrezione nelle pause d’ascolto, ma soprattutto nelle pause dall’ascolto, quando allontanandoci dalle “interferenze” altrui concrezioniamo il nostro sentire.
Le mie concrezioni le offro all’ascolto, ma lascio che altri immaginino le frasi non dette della mia “telefonata” cartacea.

Questa è la telefonata che scorreva sulle pareti della Galleria Rottloff……..
<……………………………………………………………………………………………………………….. >

"per una volta che mi dimentico...!"
“The one time I forget...”<……………………………………………………………………………………………………………….. >

"sono arrivato solo ieri...
“I just arrived yesterday.”
<………………………………………………………………………………………………………………………………………………………>

"sì, non avevo più carica per chiamarti"
“Yes, I didn't have any more change to call you.”
<……………………………………………………………………………………………………………….. ……………………… >

"il tuo Caipost è arrivato,ma.....
“Yes, your Caipost arrived, but…”<……………………………………………………………………………………………………………….. ……………………………… >

"no, tra la posta non c'era"……
“No, it wasn't in the mail there.
<……………………………………………………………………………………………………………….. …………………………………… >

"E il mio messaggio?" ………
“And my message?”
<……………………………………………………………………………………………………………….. ………………………………>

"Ho trovato ancora la segreteria telefonica..."
“I got the answering machine again.”
<……………………………………………………………………………………………………………….. ……………………………………… >

"Lascia perdere, non è il momento....
“Forget it, it's neither the time nor the place”<……………………………………………………………………………………………………………….. ………………………………>

"Non c'è mai tempo per questo..."
“ There's never time for this…”
<……………………………………………………………………………………………………………….. …………………………………>

"Sì, vedo di portarti le bozze del progetto" ……
“Yes, I'll see about bringing you the drafts of the project”
<……………………………………………………………………………………………………………….. >

"Ok, ne parleremo, ma non ora".......
“Okay, we'll talk about it, but not now.”
<……………………………………………………………………..…………………………………………………………………….……………………………………………………………………..


(avevo preparato anche degli stampati per raccogliere le telefonate d’invenzione dei presenti. Poi per problemi di lingua…il gioco si è arenato! Per questo è un qualcosa in sospeso che potrò riprendere, continuare, ampliarsi, o resterà un gioco mancato)



comunicare a frammenti

Comunicare a frammenti incompleti ricomponibili in un continuo ribaltamento di significati: non dovrebbe esistere titolo, data, lato di lettura.
La manipolazione dell’oggetto continua con la ricollocazione e i contagi di vicinanza.

Frammenti di un puzzle senza coordinate, di cui non esista l’immagine di riferimento per una conclusione univoca.
Concrezioni casuali di magma cartaceo dai cui stessi frammenti nasca un sottile filo di riordino in lettura temporanea e soggettiva. La data possibile potrebbe riguardare il momento in cui dviene necessario un titolo a causa di uno sguardo esterno, non il momento della costruzione dell’oggetto, che verrebbe così bloccato nel suo ricostituirsi, agglomerarsi, inglobarsi.
L’oggetto deve poter restare il più a lungo frammento di nuvola cartacea in cui specchiare pensieri non suggestionati da una forma conchiusa in sé.
Titolo e data sono confezioni che imballano, inscatolano, imbalsamano sugli scaffali dell’archiviabile.
Forse un numero.
Anche se sembra essere il deteriorante massimo dell’archiviare, non dà appigli e suggestioni di inquinamento-contagio allo sguardo.

OK. LA DATA RIGUARDA IL TITOLO,
PERCHE’ IL TITOLO RIGUARDA IL PUNTO DI SGUARDO TRANSITANTE NEL MOMENTO IN CUI SI POSA SULL’OGGETTO PER ESPERIRLO. E STOP.
Essendo concrezioni casuali, “CAOS-USUALI”, anche il NOMARLE ( NOMADE-NOMADURA - NOMATURA - NORMATURA) subisce i dati casuali del momento soggettivo.

Ciò che chiamavo “calendario tattile” oggi non avrebbe più lo stesso titolo.
Le stesse suggestioni che mi hanno condotto a NOMARLO così, a NORMARLO per la prima esposizione allo sguardo, oggi non mi appartengono e il mio sguardo di ora lo chiama
CRUCI-SILLABARIO o altrimenti
PROPELLENTE PER FAVOLE, o altrimenti
RIMOZIONE FORZATA, o altrimenti
ALTRIMENTI DETTO.


Sì, forse “Altrimenti detto” è un buon TITOLO, una buona scatola non sigillante in una forma conchiusa.

Le tessere del paesaggio infinito (cinese?) mi hanno sempre affascinato: una linea di terra continua che rende ricomponibile l’immagine in ogni possibile soluzione sempre inconfutabilmente valida.

NOMADE
NO MADE
Non fatto
non concluso

Non
NOMABILE
Non
NORMABILE
Non FORMABILE
ORMABILE traccia
ORABILE racconto
OTABILE ascolto
ITABILE percorso
IATABILE

incontro
senza esclusione

perchè la scatola?

Non c’è scarto che tenga. Perché la scatola? La scatola è archivio, è luogo di contenuti, è riordino di ciò che non ha ancora un posto prefissato, è luogo del dimenticato, dell’ingombro inutile, del racconto. Vi si accozzano memorie di attaccamenti irrazionali, frammenti di possibile futuro, esperienze sospese da rielaborare, abbozzi di enciclopedie inedite. Il contenitore nasce per rendere possibile il viaggio tutelato di un bene di consumo, di valore, effimero, deperibile, segreto ... Rende sovrapponibili i contenuti. Forse dimenticabili.A volte ne dichiara la qualità e quantità, la durata, la provenienza, le istruzioni per l’uso, la fragilità. Doti e difetti. Il collo viaggia poggiato su questo lato. Aprire ed esporre al pubblico. Non sovrapporre più di dodici colli. Contiene idee confuse. Non agitare ulteriormente ...C’è un’attenzione e una cura sempre più estetica nel progettare i contenitori di oggetti. Una delle forme che più mi ha catturato per il suo potenziale costruttivo è l’imballaggio da ortofrutta. Nasce esclusivamente per un problema di trasporto e di stoccaggio, ma la sua struttura diviene sintesi di un universo di letture possibili, sia formali che di simbologie traslate. Ha una sua compiutezza autonoma, e allo stesso tempo ha una mediazione di convivenza con i suoi simili, perché piccoli particolari costruttivi aprono la sua forma al prima e al dopo di un incastro possibile, in un continuum modulare. Quest’imballaggio così “pensato” diviene per me biblioteca infinita, archivio impossibile mai definitivo delle “cose dell’Uomo”. rf


There is no waste as such when it comes down to it. Why a box? The box is an archive, a place of contents, it is the reordering of what still does not have a preset place, it is the place of what is forgotten, of useless junk, of telling things. Memories of irrational attachment, fragments of a possible future, experiences suspended by reworking, sketches of a unique encyclopaedia jumbled together. The container came into being to make the protected journey of a consumer item possible; valuable, ephemeral, perishable, secret. It makes the contents superimposable. Perhaps even forgettable. At times it declares the quality and the quantity, the duration, the origin, the instructions for use, the fragility. Gifts and defects. The pack travels on this side. Open it up and show it to the public. Do not place more than twelve packs on top of each other. It contains confused ideas. Do not shake further... There is an attention and care in designing today’s containers that is evermore aesthetic. One of the shapes that struck me for its constructive potential was that of fruit & vegetable packaging. It is created exclusively for a problem of transportation and stocking, but its structure becomes the synthesis of a universe of possible readings, both formal and of translated symbols. It has a completeness all of its own, and at the same time it is a mediation of cohabitation with fellow objects, because small constructive details open its form to the fore and after of possible linkage in a modular continuum. Thus “conveived of” in this manner this type of packaging for me becomes an infinite library, an impossible, never definitive archive of the “things of mankind”. rf

UN SOLO NOME - di Jorge de Sousa (alias raffo)

Non ho mai avuto un solo nome, delle sillabe ben composte che mi designassero: Alfredo. Pablo. Vicente….., già delle certezze a cui far riferimento nelle nebbie dei pensieri senza fissa dimora. Per tradizione ne ho più di quindici, per non far torto a nessuno dei parenti maschi che mi hanno preceduto.
E io. Ho imparato a usarli tutti. A farne maschera. E’ iniziato per gioco, quando fin da piccoli con mio fratello Esteban ci divertivamo a tirar matto il maestro che non sapeva mai chi dei due avesse davanti: due gocce scure e ribelli, i capelli sempre arruffati che non incontravano né pettine né carezze a rigovernarli. Smilzi e nervosi, perennemente già da un’altra parte, ci specchiavamo l’uno nell’altro senza darci un confine. E i nostri quindici nomi ce li scambiavamo come figurine dei calciatori. Erano la nostra squadra invisibile, compagni di gioco con cui sbizzarrirci nei pomeriggi senza regole a cui nostra madre ci affidava. Il tempo accudisce e, comunque cresciuti, eravamo già universitari scavezzacollo prima di capire cosa significasse essere figli di un valente diplomatico, importante e assente, perennemente “in viaggio”.
Viaggio: quel luogo immenso in cui moltiplicare le vite, e per questa idea di viaggio scelsi di seguire la sua stessa strada.
All’università mi destreggiavo non male con le ragazze. Mi faceva buon gioco la fama di “estremo”. Si gettavano tra le mie braccia come io facevo con gli strapiombi e gli orridi della cordigliera. Ma a differenza di questa, io restituivo solo animi a pezzi. Accessori intercambiabili con cui nutrivo un ego espanso a dismisura.
Ero ingordo anche a tavola, ma bruciavo tutto in donne e sport, compresi i pochi spiccioli del praticantato. Istruivo la gola da un avvocato che mi allenava alle vette dell’oratoria, gli spazzavo lo studio e farcivo i cassetti dei miei sogni.
La prima occasione per viaggiare me la diede una cliente.
Mi ritrovo a svolazzare sul globo come guardia del corpo di una bigotta in affari. Tutto un obliterare, passando dalla giacca al montone, dal giorno al giorno.
Fusi orari e stagioni diventano il gradito sorbetto con cui digerisco i miei quindici nomi, che ogni volta prendono accenti e sfumature diverse dalle radici volanti con cui sondano il nuovo suolo.
Odio gli specchi che mi riunificano dietro quest’unica faccia, ma parlo a lungo con loro, come a un fratello. Esteban si è arenato tra quattro mura e un amore. Da tempo lo incontro solo guardandomi. L’uno e il tutti. Finalmente diversi, ci siamo costruiti le nostre personalità nella distanza, specializzandoci in due campi opposti: la parola e il segno. Io nelle pubbliche relazioni, e lui disegnatore per una casa editrice di fumetti: fa viaggiare gli altri con la sua matita, e mi raggiunge ovunque io mi trovi dalle vetrine delle librerie. Attraverso i suoi disegni tengo monitorati i suoi umori, anche se raramente abbiamo occasione d’incontrarci. E proprio grazie a un suo libro ho conosciuto il baratro che mi ha fatto a pezzi.
Ritagliato un giorno libero da impegni, passeggio distratto per i vicoli della vecchia Bruxelles. Mi fermo davanti a una libreria, più per vizio che per intenzione. Una vecchia rivendita di fumetti d’autore, affastellata di pubblicazioni su ogni superficie dove si posi l’occhio. Anche alle pareti, bacheche stratificate di invenzioni del futuro. Entro, e c’è lei. Una piccola mora di bosco. Parla un fiammingo storpiato con accento spagnolo. La interpello nella nostra lingua per chiederle un vecchio numero di “Dagherro Tipo” e lei s’illumina abbagliandomi. Dalla testa ai piedi. Perdo il senso delle distanze e finiamo in un turbinio di carte. Comprensive di certificato matrimoniale nel tempo di un “chi sei?”.
I primi tempi ho condiviso con lei i miei viaggi, che fossero d’affari o di svago. E’ stravolgente per le mie abitudini sentirmi chiamare ogni giorno con lo stesso nome. Ne ho inventato uno vergine per lei, e in lei mi ricompongo.
Perdo l’abitudine di chiacchierare allo specchio senza quasi avvedermene. Perdo l’abitudine di rutilar tra donne e luoghi quasi senza avvedermene. Perdo l’abitudine a frequentare i miei tanti nomi quasi senza avvedermene. Poi. Durante un litigio senza ragioni, entrambi stuzzicando il peggio dell’altro, dal gioco abbiamo estratto cammelli. Mentre schivo un pesante libro di Pessoa a danno dello specchio alle mie spalle, mi ritrovo in frantumi. Lei si specchia e la perdo.
Ora vivo solo, mi chiamo Jorge, sono alto quanto basta per usare i tram nelle ore di punta senza claustrofobia, ho perso un’occhio per una scheggia di vetro, porto occhiali specchianti per non restare abbagliato, parlo con mio fratello via web evitando le librerie, faccio il pendolare tra Bilbao, Strasburgo, e le capitali di mezzo mondo, ho investito in una catena di ristoranti gestita da tre soci cinesi: nutriamo il terziario frettoloso e io so sempre dove andare a mangiare.
Ho lasciato perdere la carriera diplomatica, ma nell’attuale professione di traduttore per il Parlamento Europeo attingo a piene mani dalle mie precedenti esperienze. Trovo sempre la parola giusta, e non è detto che questa abilità non abbia talvolta migliorato le mediazioni a cui faccio da tramite.
Mi sfoglio piano, come un vocabolario troppo frequentato, e le parole sono il mio regno. Ho anche una piccola casa a Ribadeo, in faccia all’Oceano, e quando posso conto le onde prima di restituirle al mondo. Jorge de Sousa


Civitanova Marche, 2004, AAVV, IL SEGRETO MANIFESTO - Autobiografie immaginarie di personaggi contemporanei, (a cura di R.Rossini), pp34-36.

giovedì 25 dicembre 2008

Energia digitale - 2002

Raccolta punti a orario continuato. In corsa. Piego la carta a cottimo, mentre cammino lasciando che gli occhi rubino cromie da ipermercato. E le stagioni hanno il ritmo dei saldi, dei cambi vetrina, il colore dei prodotti solari e degli articoli di fine serie. Il mosaico di pixel si amplia fagocitando nuove proposte, scegliendo i colori forti di una vendita promozionale, di un calendario di eventi, di un viaggio a oriente.
Non ho mai subito arresti, nonostante l’intensa attività di riciclaggio di colore usato, di mostra in mostra, lungo chilometri di pareti e strade. L’energia digitale circuisce e circuita: chiede pausa allo sguardo e corrobora. Lievemente contamina con un pizzico di ironia prodotti e riprodotti, saldi, scorte, scarti, carte, trasformando in A.C.E. la pigra inerzia da voyeur. E quella “cosa” chiamata arte, corto circuito della mente, alchimia nel fare. Vitamina naturale, con giusto apporto di sali minerali, impalcatura per immersioni in apnea, escursioni estreme, intrusioni in luoghi introvabili del pensiero. Alternanza di energie. Celebrazione di ogni pausa tra dire e fare, e del gesto di un dito in sincronia con i suoi simili. Da non dar per scontato.

Raffaella Formenti - 2002

(pag 52 cat. “Energie naturali”)
“ENERGIE NATURALI” con testo di Francesco Tedeschi.
Catalogo e mostra a cura di F. Paris, F. Tedeschi - Brescia 2002

VOLEVO...

Volevo solo leggere e scrivere, e viaggiare nei luoghi delle parole, ma anche le mani hanno preteso il loro spazio d’azione, e intervengono con pensieri ingombranti ogni volta che entrano in rapporto con oggetti carichi di parole.

il mio studio...

Il mio studio è una discarica nella quale riciclo in prodotti scaduti gli ingombri che mi occludono i pensieri

Lavoro sul MARGINALE: gesti tempo e luoghi solitamente esclusi dallo sguardo.

GESTI > manualità in automatismo produttivo
TEMPO > ritagli di tempo dati per persi
LUOGHI > l’angolo tra le pareti

Rendo visibile la manualità con un gesto di produzione continua dell’inutile nei luoghi più improbabili ============


Dò sovranità agli imballaggi “utili e gratuiti” nei templi dell’acquisto =================

Raccolgo volantini appena distribuiti lungo le auto per farne pixel di colore ===

La pubblicità raccolta, come le parole perse, diventano colore imprigionato nella follia produttiva: migliaia di scatoline come tessere di mosaico, composto da quelle mani nascoste e sottopagate che passano l’intera vita a ripetere un gesto di produzione mai visto ne considerato.

Tra i pendolari del metrò, le code agli sportelli, le sale d’attesa, le file alle casse, lo struscio del sabato, le ore di televisione, le chiacchiere di circostanza…accumulo la mia manualità superflua trasformandola in “prodotto scaduto con valenza estetica da monolocale”.

Visualizzo il tempo perso rendendolo prodotto per mediare con chi non accetta che si perda tempo.
Sto per ore a pensare, a guardare: in mezzo alla gente che ha luoghi in cui andare, fare, essere. Cammino per ore: e le mie tasche si gonfiano di scatoline. Contengono l’attesa? forse il TRASCORRERE. Anch’io trascorro in mezzo alla gente che FA: nessuno mi chiede cosa io faccia, nemmeno quando nelle ore di punta del sabato giro il supermercato riempiendo il carrello di imballaggi da butto in cui trovo sollecitazioni di un poi.
r. formenti - 1998