martedì 30 dicembre 2008

quando lo sguardo cattura e strappa

L’affollarsi che annulla reclama un luogo senza rumori visivi,un punto da cui dipanare il proprio racconto,uno schermo bianco su cui focalizzare una risposta di ascolto.
QUANDO LO SGUARDO CATTURA E STRAPPA
ciò che più conta è contaminare lo sguardo ad attardarsi sul marginale e renderlo così protagonista di un nuovo racconto…

...Mi è capitato di vivere il dietro le quinte di luoghi quali gli Ipermercati, e camminare a lungo per le Metropoli in corsa.
Ho seguito l’urgenza di accogliere nel mio lavoro il colore stesso della “pelle cartacea” che imballa il nostro quotidiano incedere.
Un calcio ad una scatola vuota, che ha terminato il suo ciclo di contenitore protettivo e accattivante all’acquisto, e questa scatola entra nel vivo di una sua nuova storia, insieme ad altri frammenti colorati che rimanipolo in un mosaico senza pareti.
E di oggetti cartacei mi nutro, e con essi cerco di dire cose attinenti all’oggi. E più la gente consuma, processo che non sono certo io a poter rallentare, più posso ossigenare il mio alfabeto di nuovi colori… Quelli stessi che solluccherano i desideri del compratore, slogans e frasi martellanti comprese, permettono poi a me di aver tinte sempre nuove per un ennesimo strappo di presente in cui, come un germinante corpo in crescita, un frammento chiama l’altro e la colla cattura le parole in una nuova storia.

Io amo strappare.
Strappare affreschi quotidiani. Parole. Immagini. Materiali. Luoghi.
Sovrapporli: affastellarli, o al contrario liberarli da ogni rumore che ne impedisca la “lettura”.

Solitamente strappo strisciate di “reale” con lunghi scotch lungo le strade tappezzate di colore. Strappo lunghi rotoli di parole facendo zapping tra i programmi televisivi e riscrivendone il passaggio come un amanuense in corsa.
Strappo scatole e carta alle cose da buttare e le sovrappongo a se stesse in un nuovo racconto.Ma strappo anche immagini nel mio vagabondare lungo il teatro umano e le scelgo a rappresentare il mio sentire.
Mi piace immaginare il ruolo dell’artista come colui che non cessa un istante di tenere il dito puntato sulla forma variante delle nuvole, invariabile presenza che ha trascorso le epoche.


Nessuna presunzione di aver la formula del “nuovo”, quanto piuttosto un ruolo di marker fluorescente, pensando i luoghi come immense pagine di appunti da cui estrapolare un dato significativo per la scrittura di “pagine” successive.
Non esiste il senso lineare del progresso in arte. Esiste la capacità o meno di trattenere in un’immagine la continuità di respiro del pensiero umano. Come traccia. Come tensione. Come semplice segno di scelta.