venerdì 26 dicembre 2008

UN SOLO NOME - di Jorge de Sousa (alias raffo)

Non ho mai avuto un solo nome, delle sillabe ben composte che mi designassero: Alfredo. Pablo. Vicente….., già delle certezze a cui far riferimento nelle nebbie dei pensieri senza fissa dimora. Per tradizione ne ho più di quindici, per non far torto a nessuno dei parenti maschi che mi hanno preceduto.
E io. Ho imparato a usarli tutti. A farne maschera. E’ iniziato per gioco, quando fin da piccoli con mio fratello Esteban ci divertivamo a tirar matto il maestro che non sapeva mai chi dei due avesse davanti: due gocce scure e ribelli, i capelli sempre arruffati che non incontravano né pettine né carezze a rigovernarli. Smilzi e nervosi, perennemente già da un’altra parte, ci specchiavamo l’uno nell’altro senza darci un confine. E i nostri quindici nomi ce li scambiavamo come figurine dei calciatori. Erano la nostra squadra invisibile, compagni di gioco con cui sbizzarrirci nei pomeriggi senza regole a cui nostra madre ci affidava. Il tempo accudisce e, comunque cresciuti, eravamo già universitari scavezzacollo prima di capire cosa significasse essere figli di un valente diplomatico, importante e assente, perennemente “in viaggio”.
Viaggio: quel luogo immenso in cui moltiplicare le vite, e per questa idea di viaggio scelsi di seguire la sua stessa strada.
All’università mi destreggiavo non male con le ragazze. Mi faceva buon gioco la fama di “estremo”. Si gettavano tra le mie braccia come io facevo con gli strapiombi e gli orridi della cordigliera. Ma a differenza di questa, io restituivo solo animi a pezzi. Accessori intercambiabili con cui nutrivo un ego espanso a dismisura.
Ero ingordo anche a tavola, ma bruciavo tutto in donne e sport, compresi i pochi spiccioli del praticantato. Istruivo la gola da un avvocato che mi allenava alle vette dell’oratoria, gli spazzavo lo studio e farcivo i cassetti dei miei sogni.
La prima occasione per viaggiare me la diede una cliente.
Mi ritrovo a svolazzare sul globo come guardia del corpo di una bigotta in affari. Tutto un obliterare, passando dalla giacca al montone, dal giorno al giorno.
Fusi orari e stagioni diventano il gradito sorbetto con cui digerisco i miei quindici nomi, che ogni volta prendono accenti e sfumature diverse dalle radici volanti con cui sondano il nuovo suolo.
Odio gli specchi che mi riunificano dietro quest’unica faccia, ma parlo a lungo con loro, come a un fratello. Esteban si è arenato tra quattro mura e un amore. Da tempo lo incontro solo guardandomi. L’uno e il tutti. Finalmente diversi, ci siamo costruiti le nostre personalità nella distanza, specializzandoci in due campi opposti: la parola e il segno. Io nelle pubbliche relazioni, e lui disegnatore per una casa editrice di fumetti: fa viaggiare gli altri con la sua matita, e mi raggiunge ovunque io mi trovi dalle vetrine delle librerie. Attraverso i suoi disegni tengo monitorati i suoi umori, anche se raramente abbiamo occasione d’incontrarci. E proprio grazie a un suo libro ho conosciuto il baratro che mi ha fatto a pezzi.
Ritagliato un giorno libero da impegni, passeggio distratto per i vicoli della vecchia Bruxelles. Mi fermo davanti a una libreria, più per vizio che per intenzione. Una vecchia rivendita di fumetti d’autore, affastellata di pubblicazioni su ogni superficie dove si posi l’occhio. Anche alle pareti, bacheche stratificate di invenzioni del futuro. Entro, e c’è lei. Una piccola mora di bosco. Parla un fiammingo storpiato con accento spagnolo. La interpello nella nostra lingua per chiederle un vecchio numero di “Dagherro Tipo” e lei s’illumina abbagliandomi. Dalla testa ai piedi. Perdo il senso delle distanze e finiamo in un turbinio di carte. Comprensive di certificato matrimoniale nel tempo di un “chi sei?”.
I primi tempi ho condiviso con lei i miei viaggi, che fossero d’affari o di svago. E’ stravolgente per le mie abitudini sentirmi chiamare ogni giorno con lo stesso nome. Ne ho inventato uno vergine per lei, e in lei mi ricompongo.
Perdo l’abitudine di chiacchierare allo specchio senza quasi avvedermene. Perdo l’abitudine di rutilar tra donne e luoghi quasi senza avvedermene. Perdo l’abitudine a frequentare i miei tanti nomi quasi senza avvedermene. Poi. Durante un litigio senza ragioni, entrambi stuzzicando il peggio dell’altro, dal gioco abbiamo estratto cammelli. Mentre schivo un pesante libro di Pessoa a danno dello specchio alle mie spalle, mi ritrovo in frantumi. Lei si specchia e la perdo.
Ora vivo solo, mi chiamo Jorge, sono alto quanto basta per usare i tram nelle ore di punta senza claustrofobia, ho perso un’occhio per una scheggia di vetro, porto occhiali specchianti per non restare abbagliato, parlo con mio fratello via web evitando le librerie, faccio il pendolare tra Bilbao, Strasburgo, e le capitali di mezzo mondo, ho investito in una catena di ristoranti gestita da tre soci cinesi: nutriamo il terziario frettoloso e io so sempre dove andare a mangiare.
Ho lasciato perdere la carriera diplomatica, ma nell’attuale professione di traduttore per il Parlamento Europeo attingo a piene mani dalle mie precedenti esperienze. Trovo sempre la parola giusta, e non è detto che questa abilità non abbia talvolta migliorato le mediazioni a cui faccio da tramite.
Mi sfoglio piano, come un vocabolario troppo frequentato, e le parole sono il mio regno. Ho anche una piccola casa a Ribadeo, in faccia all’Oceano, e quando posso conto le onde prima di restituirle al mondo. Jorge de Sousa


Civitanova Marche, 2004, AAVV, IL SEGRETO MANIFESTO - Autobiografie immaginarie di personaggi contemporanei, (a cura di R.Rossini), pp34-36.